In nome del popolo, cioè delle correnti. Il Csm e il caso Tarfusser
Articolo tratto da “Lo stato della giustizia”, servizio di copertina del numero di Tempi di luglio 2019. Per leggere gli altri contenuti del servizio, clicca qui.
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Avete fatto fatica a capire lo scandalo del Csm? La materia in effetti è complessa: non è facile orientarsi nell’oscena bagarre che s’è scatenata per il cambio del vertice alla Procura di Roma. La competizione ha aperto l’indegna guerra per bande partita alla fine di maggio: un conflitto inquinato da maneggi inediti e pressioni indebite, con trattative segrete tra capi di corrente e politici indagati. E i giornali non aiutano: trattano il caso in modo confuso, spesso con gergo (volutamente?) iniziatico. Eppure, per capire fino in fondo che cosa sia il Csm, e perché sia emersa questa crisi senza precedenti, una strada semplice c’è: basta seguire la storia di uno dei 13 magistrati che all’inizio dell’anno hanno provato a partecipare alla gara per prendere il posto di Giuseppe Pignatone, il capo della Procura di Roma andato in pensione il 9 maggio.
Sì, perché le toghe che si sono proposte per l’ufficio giudiziario più importante d’Italia non sono solo le tre su cui s’è accesa la battaglia tra le correnti, e cioè Marcello Viola, attuale procuratore generale di Firenze; Francesco Lo Voi, procuratore di Palermo, e Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze. C’erano altri concorrenti. Altri dieci magistrati avevano presentato regolare domanda, e sono tutti personaggi di rango. Senza alcuna trasparenza, però, tutti e dieci sono scomparsi nel nulla, uno dopo l’altro, come i dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Cancellati in totale silenzio dall’oscuro lavorìo che si svolge nelle commissioni in cui si articola il Csm. Nessuno di loro è stato nemmeno ascoltato.
Per questo merita di essere tirata fuori dai cassetti almeno una delle dieci storie “cancellate” dal Csm: quella di Cuno Tarfusser. Non avete mai sentito il suo nome? Non è un caso. Tarfusser ha 63 anni e alle spalle non ha una corrente o un partito, ma soltanto una splendida carriera: sotto molti aspetti, vanta un’esperienza e risultati di gran lunga superiori a quelli dei tre che gli sono stati preferiti dal Csm. Il suo ruolo attuale? Dal 2012 Tarfusser è nientemeno che vicepresidente della Corte penale internazionale dell’Aja, dove guida l’ufficio indagini preliminari che ha istruito e chiuso il processo più importante da quando la stessa Corte dell’Aja è stata creata: quello contro Laurent Gbagbo, l’ex presidente della Costa d’Avorio accusato di crimini contro l’umanità e andato prosciolto lo scorso gennaio.
Forse perché nato a Merano, forse per carattere, o forse per cultura familiare, Tarfusser ha una visione tutta particolare del mondo, del lavoro e della giustizia. Entra in magistratura a Bolzano nel 1985, dopo aver fatto per qualche anno l’avvocato, e nel 2001 diventa procuratore della sua città. Qui, con poche mosse, riesce a fare quello che nel resto del paese è miraggio: accelera tempi di risposta e di giudizio, crea il primo bilancio di responsabilità sociale di una Procura in Italia, ottiene addirittura la certificazione di qualità amministrativa. Soprattutto, realizza incredibili risparmi. Sulle intercettazioni, per esempio, Tarfusser scopre che la Procura da anni ha rapporti con troppe ditte e il caos ha spinto fuori controllo tutti i costi. Così decide di razionalizzare: seleziona le aziende con le tecnologie più avanzate, esige preventivi, sceglie in base al rapporto costi-benefici. Il risultato? La qualità delle intercettazioni sale, e in tre anni il costo medio di un’utenza sotto controllo crolla da 100 a 17 euro al giorno. La spesa totale si riduce di due terzi: da 1,2 milioni di euro spesi nel 2003 a 350 mila nel 2006. I giornali e il ministero della Giustizia gridano al miracolo di Bolzano, e tre o quattro successivi guardasigilli dichiarano che la «formula Tarfusser» va subito applicata a tutte e 140 le Procure d’Italia.
La gara per Milano
Al contrario, come spesso accade nella nostra giustizia, nulla accade. Così, un po’ sfiduciato, nel 2009 Tarfusser si mette in cerca di aria migliore e si trasferisce all’Aja con un mandato di nove anni. Nel 2015, però, l’andata in pensione di Edmondo Bruti Liberati, leader storico di Magistratura democratica, la corrente delle toghe di sinistra, scopre il posto di procuratore a Milano. Sono in tanti a concorrere, una decina: dai procuratori aggiunti di Milano Francesco Greco, Alfredo Nobili e Ilda Boccassini, fino al procuratore di Trento Giuseppe Amato. Anche Tarfusser, dall’Olanda, presenta la sua domanda. Volete sapere a quel punto che cosa succede? Che il Csm non lo convoca nemmeno. Il Consiglio incontra e ascolta tutti gli altri candidati ma ignora lui, il “senza corrente”. Quando il caso scoppia, nell’aprile 2016, il Csm è costretto a convocare Tarfusser, sia pure tardivamente, e qualcuno gli indica di mala grazia due risicati orari per una «consultazione urgente». Di fronte all’offesa, il magistrato risponde per lettera dall’Aja che non si presenterà e non farà nemmeno ricorso: si dice «amareggiato» dal non poter «mettere a disposizione della giustizia del mio paese esperienze innovative, positive e complesse». A Panorama dichiara: «Non ho mai aderito ad alcuna corrente perché ritengo che significhi schierarsi e questo riduce la credibilità e l’autorevolezza di cui il magistrato deve nutrirsi. Se poi questa mia “apoliticità” abbia influito sulla mia esclusione non lo so, né mi interessa. Ma se così fosse ne sarei quasi onorato». Poi aggiunge: «I capi degli uffici giudiziari sono scelti dai consiglieri del Csm che raramente hanno guidato un ufficio, dunque difettano di quella preparazione specifica che aumenterebbe la capacità di selezione. Con questi presupposti, è già un miracolo se le cose in qualche modo funzionano lo stesso».
Sei mesi fa, Tarfusser ci ha riprovato con la Procura di Roma. Ovviamente, nel suo caso non c’è stato nessun miracolo. Ora sapete com’è andata. E anche il perché. Sapete, soprattutto, come mai la giustizia italiana è ridotta a fogna.
Foto Ansa
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