Ilva. La fine dell’età del ferro
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Il 7 aprile del 1987 Rosario Nolasco, commissario straordinario della Fit-Ferrotubi di Sestri Levante, chiamò a raccolta i sindacati dei 1.250 operai dello stabilimento, in cassa integrazione da 40 mesi. Senza troppi giri di parole, comunicò loro che il nuovo padrone sarebbe arrivato da Cremona, e di nome faceva Giovanni Arvedi. Il comitato di sorveglianza della Fit, una delle prime aziende in Italia a produrre tubi senza saldatura (era stata fondata nel 1905 come Società Fabbrica Nazionale Tubi), si era trovato a scegliere fra tre progetti per l’acquisto e il rilancio dell’azienda: uno presentato appunto dalla Finarvedi, che contemplava un investimento da 33 miliardi di lire in cinque anni, uno dall’americana Transoil e un altro da Steno Marcegaglia, che di miliardi prevedeva di spenderne 19 in nove anni. Probabilmente fu per la conquista di quella che oggi è la Arinox e un tempo la “Tubifera” – come la chiamavano familiarmente a Trigoso – che nacque la rivalità, sempre smentita dai diretti interessati, tra il cremonese Arvedi e il mantovano Marcegaglia. Esattamente trent’anni dopo, la storia darà l’occasione di una rivincita.
Diversi, erano diversi. Steno, figlio di un emigrato veronese in Abissinia, era cresciuto con la madre ospite da parenti che gestivano un’osteria a Gazoldo degli Ippoliti, nel Mantovano. Cinquanta chilometri al giorno su un motorino Guzzi, poi lasciato a perenne ricordo all’ingresso della sua azienda, per andare a studiare nel capoluogo. Sindacalista comunista dei braccianti locali, un giorno, a furia di litigare con gli imprenditori, aveva deciso di diventare uno di loro. Self-made man di quelli che in Italia solo con il boom economico, aveva preso a fabbricare guide per tapparelle. Irascibile, sanguigno, capace di sfuggire due volte ai sequestratori calabresi (correva l’anno 1982) a Mantova ha sempre contato, ma meno di qualcun altro. Prima i Belleli, poi i Colaninno gli hanno fatto ombra. Il riscatto, tardivo, l’elezione della figlia Emma alla presidenza di Confindustria. Nel 2013, rotto un femore, ha lasciato l’azienda agli eredi, Antonio ed Emma.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Giovanni, invece, è ancora in sella. Dice la leggenda che a Cremona non si muova foglia che Arvedi non voglia. Controlla, insieme agli imprenditori di Confagricoltura, lo storico quotidiano locale, la Provincia. Qualche anno fa ha fondato una televisione, Studio 1, nei primi tempi affidata a Francesco Tartara, ex braccio destro di Emilio Fede al Tg4. È sua la Cremonese, oggi relegata in Lega Pro ma pur sempre il centro delle chiacchiere da bar, all’ombra del Torrazzo. Ha finanziato di recente il nuovo Museo del Violino e una casa di riposo. I salotti non solo gli piacciono, ma ci è entrato più volte, come quando – nell’84 – partecipò al salvataggio del Corriere della Sera, travolto dall’affaire P2.
I conti veri
Il derby padano dell’acciaio è tornato alla ribalta qualche mese fa, quando i due gruppi hanno manifestato l’intenzione di rilevare quel che resta dell’Ilva, con i conti in miglioramento ma ancora 3.300 cassintegrati su 12 mila dipendenti. Il termine delle offerte è slittato più volte, finché – lo scorso 6 marzo – le buste sono state aperte dai commissari straordinari Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba. Nella partita, cremonesi e mantovani non sono però soli, e anzi – al di là delle rivalità e della storia che si ripete – non saranno granché determinanti. Da un lato c’è la cordata AcciaItalia, che al gruppo Arvedi vede affiancati la Delfin di Leonardo Del Vecchio e gli indiani di Jindal South West, e che può godere del sostegno finanziario di Cassa Depositi e Prestiti. Presenza che ha sollevato qualche dubbio di opportunità, visto che Cdp è pubblica e che a bandire l’asta per l’Ilva, dopotutto, è lo Stato.
L’altro consorzio, di cui i Marcegaglia sono il nome più riconoscibile, si chiama invece Am Investco Italy e vede la partecipazione del colosso indiano della siderurgia ArcelorMittal, con il sostegno (annunciato a offerte già depositate) di Intesa Sanpaolo. Stili diversi: Marcegaglia & Co. hanno subito rivelato i termini del loro piano, che prevede 2,3 miliardi di euro di investimenti oltre al prezzo d’acquisto e una produzione di 9,5 milioni di tonnellate di prodotti finiti; da Arvedi, invece, bocche cucite, dopo il rifiuto della pace offerta mesi fa ai rivali di Mantova. Si sa, perché a parlare è stato Sajjan Jindal, presidente del gruppo, al Sole 24 Ore, che le tonnellate prodotte sarebbero poche di più (10 milioni), e che quello indiano-cremonese sarà un progetto “verde”: «Se ci aggiudicheremo l’Ilva – la promessa – sarà con il preridotto e altre soluzioni tecniche basate sull’uso del gas come combustibile pulito che faremo tornare blu il cielo e respirabile l’aria di Taranto». Basta carbone, insomma. O quasi. Per gli avversari, uno slogan da campagna elettorale o poco più.
Che vinca l’idea di un’Ilva “green”, come la dipinge AcciaItalia, o quella di un impianto destinato a inserirsi in un gruppo globale per produrre essenzialmente acciaio di alta qualità destinato all’industria automobilistica, quel che è certo è che il derby tra Cremona e Mantova sarà soltanto un’occasione di saldare i conti tra due famiglie divise da ruggini antiche. I conti, quelli veri, li faranno i big indiani del settore: saranno loro i veri contendenti, e l’Italia uno dei tanti campi di battaglia sui quali – di tanto in tanto – si trovano a fronteggiarsi.
Dovesse prevalere l’offerta di Am Investco Italy, ad ArcelorMittal andrebbe infatti oltre l’80 per cento della nuova Ilva, con i Marcegaglia a meno del 20. Toccasse ad AcciaItalia, la quota di Arvedi sarebbe pari appena al 10 per cento, con Delfin e Cdp al 27,5 cadauno, e gli indiani di Jindal a comandare con il 35 per cento.
Foto Ansa
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