Il viaggio di Anastasia «nell’apocalisse di Mariupol» per salvare i genitori
Mentre tutto il mondo seguiva con angoscia le notizie sull’apertura e la chiusura dei corridoi umanitari per far scappare i civili da quell’inferno che è divenuta Mariupol, una ragazza tentava invece di entrarci. Non per cercare gloria in guerra col fucile in braccio ma per salvare i suoi genitori. Il viaggio di Anastasia Pavlova, 23 anni, verso la città martire per eccellenza della guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina è incredibile, soprattutto perché la giovane ne è uscita viva e ha così potuto raccontare la sua incursione nell’«apocalisse».
Mariupol è caduta in mano ai russi
I russi bombardano incessantemente Mariupol dall’inizio del conflitto, scoppiato il 24 febbraio. La città nel Donbass è cruciale per le mire di Vladimir Putin non solo perché è il porto principale dell’Ucraina sul Mar Nero, ma anche perché la sua conquista permetterebbe di collegare via terra la Crimea al territorio russo. Per questo le bombe, i missili e i razzi russi si sono accaniti sulla «città di Maria» con ferocia inaudita, intrappolando i civili in un groviglio di macerie e crateri, spesso senza acqua, cibo e possibilità di fuggire.
La presa di Mariupol è ormai a un passo: la città è completamente caduta in mano russa eccezione fatta per l’acciaieria Azovstal, dove sono asserragliati gli ultimi membri del battaglione Azov e i soldati sopravvissuti del 36esimo battaglione dei Marines ucraini. Insieme a loro, sarebbero nascosti nel lungo cunicolo di tunnel che si dipanano sotto l’enorme azienda centinaia di civili.
Mosca aveva inizialmente dichiarato di voler radere al suolo l’acciaieria, ma Putin ha poi avanzato un altro progetto: circondarla e sigillarla aspettando che gli uomini rimasti all’interno si arrendano. Il presidente russo dice di aver cambiato idea per non far morire i suoi soldati nell’assalto finale, ma le ragioni potrebbero essere altre visto che ogni afflato umanitario mal si addice a chi ha scatenato una guerra così feroce e violenta senza riguardo né per le vite degli ucraini né per quelle dei propri soldati.
«Andrò a Mariupol, così sia»
Dopo i primi bombardamenti di febbraio, Anastasia abbandonò subito Kharkiv per Dnipro. Pregò i suoi genitori di fuggire da Mariupol, ma la madre, Oksana, non voleva abbandonare la sua casa nel sobborgo industriale di Cheryomushki. L’insegnante di religione di 54 anni non voleva lasciare la città, «la più importante dell’Ucraina, perché porta il nome della Vergine Maria».
Ma quando in una breve telefonata Oksana disse alla figlia che anche il loro quartiere era bersagliato dai missili, pregandola allo stesso tempo di «non venire qui», Anastasia decise che doveva rischiare tutto per salvarli. Alla fine di marzo, si procurò un furgoncino e cercò disperatamente qualcuno che volesse guidarlo: «Nessuno era disponibile», dichiara la giovane alla Bbc. «Erano sicuri che qualcuno ci avrebbe sparato. Poi ho trovato un autista davvero coraggioso e ho pensato: “Ok, ormai ho deciso, così sia: andrò a Mariupol, qualunque cosa accada”».
La vita quotidiana sotto le bombe
Anastasia partì da Zaporizhzhia, l’ultima città relativamente sicura prima del fronte. In una foto scattata prima della partenza, si vede la giovane sorridere e alzare le dita della mano in segno di vittoria, anche se «ero ovviamente spaventata a morte». Dopo 260 km, arrivò al primo checkpoint russo che la lasciò passare senza troppe domande. Superare quelli successivi fu più difficile: «A un posto di blocco, mentre ci controllavano i documenti, i soldati russi ci puntarono le mitragliatrici alla testa. Sembravano pronti a requisirci il veicolo, a ucciderci sul posto o a stuprarmi. Mi aspettavo che lo facessero da un momento all’altro».
Invece li lasciarono passare. Mentre Anastasia viaggiava, i suoi genitori, Oksana e Dmitry, dormivano sul pavimento della loro casa aiutandosi l’un l’altro con i vicini. «Nonostante i bombardamenti, la nostra umanità non è mai venuta meno», racconta la madre. «Qualcuno metteva in comune la stufa, noi un po’ di grano, altri la poca acqua rimasta. Facevamo anche visita a un signore anziano del quartiere, rimasto solo. Ci siamo sostenuti l’un l’altro e questo ci permetteva di essere meno spaventati».
L’arrivo alla «fine del mondo»
Anastasia non sapeva se avrebbe ritrovato i suoi genitori vivi. Alla fine arrivò nella città devastata: la vista delle fosse comuni, dei cadaveri, delle macerie dappertutto faceva sembrare Mariupol «come la fine del mondo»: «All’inizio ero spaventata nel vedere i morti», ricorda, «ma dopo che ne vedi 10 o 20, passando, ci fai il callo. Forse sono io che sono fatta così, ma la verità è che ti abitui anche alle peggiori atrocità».
Dei soldati russi incrociati in città le ordinarono di andarsene entro due minuti o avrebbero aperto il fuoco. Fece quindi rotta, mentre la notte calava su Mariupol, su una scuola nel quartiere di Volodarske, dove qualcuno le aveva detto che era stato allestito un campo profughi. «È stata la seconda esperienza più terribile del viaggio», rammenta Anastasia mentre le immagini di centinaia di persone ammassate l’una sull’altra – vecchi, donne, uomini e bambini insieme – le ripassano davanti agli occhi.
«La gente là stava aspettando di essere portata a Rostov, in Russia. Era l’unica possibilità di scappare. Alcune persone non bevevano acqua potabile da un mese. Non si riusciva a respirare: ho ascoltato storie terribili mentre facevo la coda per avere un po’ di cibo. Una nonna mi disse che per 10 giorni è andata avanti bevendo solo un uovo crudo al giorno. È dopo queste parole che sono scoppiata a piangere per la prima volta».
La “notte dell’Innominato” di Anastasia
Anastasia descrive così ciò che ha provato:
«Ho pensato all’apocalisse, era come se dentro di me tutto crollasse. Era come se tutto ciò in cui avevo sempre creduto, l’idea che c’è sempre qualcosa di buono, l’immagine delle persone, l’impressione di vivere in una società civile, fosse sbagliato. Mi ero ingannata per tutta la vita, la gente è cattiva, barbara e la vita umana non vale nulla».
Come l’Innominato, Anastasia pensò e ripensò a tutto questo per l’intera notte. Poi arrivò l’alba a ridonare un’impossibile speranza alla ragazza e al mattino Anastasia ritrovò i suoi genitori vivi: «Non riuscivo a essere felice, ma neanche a piangere. Dissi loro: “Piangeremo quando saremo ritornati su suolo ucraino”».
La fede di Oksana: «Sperare non è vano»
Caricarono sul furgoncino i genitori insieme ad altre sei persone del quartiere, incredule nel vedere arrivare la giovane e nel sentire che aveva superato tutti i checkpoint senza essere uccisa. Oksana non ha dubbi: «Mia figlia è un eroe», esclama. Poi, ora che si trova al sicuro in una città dell’Ucraina occidentale, riflette: «Nessun crimine resta impunito, io so che esiste la collera di Dio. E il calice della rabbia è pieno».
Mentre Anastasia, pur sollevata dall’aver portato in salvo i genitori, è triste pensando a tutti coloro che non ha potuto prendere con sé sul furgoncino, nel cuore di Oksana c’è spazio per sentimenti che sembrano impossibili in guerra: gratitudine per il coraggio della figlia e speranza: «Noi siamo stati salvati, sperare non è mai vano». Neanche nell’apocalisse di Mariupol.
Foto Bbc
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