Il privilegio di essere papà di Maria Elena

Di Matteo Brogi
17 Marzo 2021
Mia figlia ha la sindrome di Down ed è la bambina migliore che il Creatore potesse darmi. E grazie a lei ho incontrato un gruppo di scienziati davvero appassionati all’umanità
Mostra esposta a Dublino in occasione della Giornata mondiale della sindrome di Down nel 2015

Numeri e statistiche non hanno una morale. Ci indicano come evolve la nostra società. Però sia gli uni sia le altre ci descrivono. Indicano chi siamo e dove stiamo andando. Poi ci sono i sociologi e i politici di turno che interpretano e spiegano. E infine ci siamo noi che abbiamo il dovere di giudicare.

Nel 2020 ci sono stati nel mondo 43 milioni di aborti (la fonte è il sito worldometers.info su dati ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità). Questo è un numero e come tale non necessiterebbe di tante spiegazioni. Se vogliamo pensare a 43 milioni di feti soppressi, 43 milioni di bambini mai nati, ci basta pensare a una nazione come la Spagna. Nel 2020, con l’aborto, abbiamo consumato quasi l’intera Spagna, una nazione che occupa la trentesima posizione nel mondo per popolazione. In quell’esercito di persone che avrebbero dovuto diventare gli uomini e le donne di domani, c’è un plotone di soppressi anche perché imperfetti. A diecimila di loro, in Europa, era stata diagnosticata con ragionevole approssimazione la Sindrome di Down, la più diffusa e conosciuta anomalia genetica in cui può incorrere quel grumo di cellule in formazione che si chiama feto (dati 2011-2015 tratti da uno studio pubblicato a dicembre sull’European Journal of Human Genetics). Li chiamano aborti selettivi e sono giustificati dallo spirito dei tempi, dalle conseguenze perverse della laicizzazione del pensiero e dall’ipocrisia della legge. 

Maria Elena, mia figlia, è una bambina con la Sindrome di Down. È una magnifica settenne, piena di energie, ostinata e testarda; un po’ come me, un po’ perché l’ostinazione è uno dei caratteri ricorrenti della trisomia 21. Soffre di quel deficit intellettivo anch’esso associato alla sindrome descritta per la prima volta da John Langdon Down nel 1862 e a volte fa perdere la pazienza, come tutti i bambini. Ma basta un sorriso per dimenticare tutto, rimboccarsi le maniche e ricordarsi che è la figlia migliore che il Creatore potesse donarmi. Come credo che pensi ogni padre minimamente consapevole quando guarda suo figlio. A prescindere dai talenti che il mondo gli riconosce.

Oggi la scienza – quella scienza cui tutto il mondo guarda con grandi aspettative in attesa che curi il male del secolo – ha armi potentissime per effettuare diagnosi prenatali precise. E mettere i genitori, nel caso il feto sia portatore di qualche anomalia, nella condizione di optare consapevolmente per la sua soppressione. 

Un limite difficile da accettare

Dirò di più. Questa scienza è munificamente sovvenzionata perché arrivi a un grado ancora superiore di precisione; il rischio non è ammesso. Il fine è quello di una società Down free, già molto efficacemente perseguito in nord Europa. Nel mondo dell’efficienza per la disabilità non c’è posto, per nessuna. Figuriamoci per una che prevede un quoziente intellettivo medio inferiore della metà di quello di un “normodotato”. Il mito del figlio perfetto, perfetto consumatore e perfetto operaio di una società improntata al consumo, ha fatto breccia, è diventato il comune sentire della mia generazione. Tra i laici, certamente, ma pure tra i praticanti tiepidi, quelli per convenzione più che per convinzione. In questo mondo, non eliminare un elemento di disturbo per il radioso progresso della società è una colpa; e poco importa se di tanto in tanto qualcuno si lava la coscienza dando visibilità al diverso in una fiction o in pubblicità. Tutti bravi ad applaudire. Ma la disabilità resta un limite con il quale si fatica a fare i conti.

In questo contesto generalmente poco accogliente, i genitori di figli disabili sono abbandonati a se stessi, stritolati tra servizi sul territorio che funzionano a singhiozzo, insegnanti di sostegno spesso latitanti, strutture ospedaliere che tagliano sui follow up per motivi di budget. Ma ci sono eccezioni che ci riconciliano con chi ci sta a fianco e io ho avuto il privilegio di conoscerne una. 

Qualcuno ci prova

Nel laboratorio di Genomica del dipartimento di Medicina specialistica, diagnostica e sperimentale all’Università di Bologna guidato dal Pierluigi Strippoli, professore associato di Biologia applicata, si sta scrivendo una storia semplicemente bella. Lì Strippoli e la sua squadra stanno studiando le cause del ritardo intellettivo connesso alla sindrome; alla base di questo studio ci sono le intuizioni e gli studi di Jérôme Lejeune, il genetista francese che incasellò scientificamente quella che fino ad allora era identificata in maniera semplicistica come sindrome di Down. Ai tempi delle prime teorie di Lejeune, nel 1959, mancavano le basi scientifiche per indagare le sue intuizioni e i suoi studi. Oggi, con il completamento della mappatura del genoma umano, le capacità ci sono e a Bologna, al policlinico Sant’Orsola-Malpighi, ci stanno provando. 

Se la teoria riceverà l’avallo scientifico degli studi, si potrà dare un futuro migliore a chi è nato con la sindrome e attenuarne gli effetti in chi nascerà. Ma questo suscita poco interesse scientifico: la ricerca ufficiale, i finanziatori e l’opinione pubblica guardano ad altro.

Maria Elena ha avuto il privilegio di essere arruolata nella fase preliminare del progetto, ora conclusa, che ha coinvolto 180 bambini. E ha dato il suo piccolo contributo. Un giorno forse potrà andarne fiera anche se non dovesse beneficiare degli esiti. Certamente avrà avuto il merito di farmi conoscere – grazie alla sua condizione – un mondo di scienziati che ha a cuore il futuro e la dignità di ogni persona e che sa declinare il sostantivo “accoglienza” in molto più che in uno slogan. 

Foto di infomatique, licenza CC BY-SA 2.0

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