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Il Pd in (retro) Marcia!

La vittoria di Renzi alle primarie non ha sciolto i nodi di un Partito democratico «che non ha più una direzione». Intervista a Emanuele Macaluso

Maurizio Tortorella
08/05/2017 - 2:00
Politica
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Renzi

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Chi oggi dà per certo il ritorno di Matteo Renzi a Palazzo Chigi la fa troppo facile». Non gli è mai stato troppo simpatico, il giovane di Rignano sull’Arno. E non è certo una questione di età, anche se tra la sua e quella del rieletto segretario del Partito democratico c’è oltre mezzo secolo (93 anni contro 42). Quel che non va proprio giù a Emanuele Macaluso è la «cultura politica» dell’ex sindaco di Firenze. Del resto, per capire l’abisso che separa i due, basta qualche riga di curriculum: Macaluso è stato nella segreteria del Pci con Palmiro Togliatti, con Luigi Longo e con Enrico Berlinguer. Parlamentare per sette legislature, dal 1963 al 1992, quando il Pci si è sciolto, nel 1989, si è iscritto al Pds. Non ha aderito al Pd perché riteneva che Democratici di sinistra e Margherita fossero «due partiti al capolinea, che anche se si fondono tra di loro al capolinea restano». Oggi Macaluso conferma: «Avevo visto giusto».

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Due mesi fa, però, lei aveva detto anche che il Pd di Matteo Renzi era finito. E che il segretario doveva fare il congresso oppure avrebbe chiuso il partito. Invece Renzi ha vinto le primarie del 30 aprile, e nel partito torna da vincitore. Come la mettiamo?
Renzi avrà anche vinto le primarie. Ma la sua condizione politica oggi non è più quella del passato: è molto indebolita dalla sconfitta del referendum del 4 dicembre. Il dissenso era stato tutto contro di lui, che aveva personalizzato il voto, e gli era mancato soprattutto il contributo delle fasce più giovani di elettori. E poi Renzi oggi non ha più i rapporti con i leader europei, da Angela Merkel a François Hollande. Insomma, la sua è una “vittoria mutilata”. Infine ci saranno presto le elezioni amministrative, e le ultime sono andate male; quindi toccherà alle politiche. Si verificherà allora il suo vero stato di salute.

Di sbagli Renzi ne ha fatti tanti, anche troppi. All’inizio del 2014 pareva inarrestabile. Poi è iniziata l’era delle promesse mancate e delle “mance” inutili. Qual è stato l’errore peggiore?
Il personalismo. Attenzione, non parlo di “leadership”: ci può essere una leadership non personalistica. Renzi, invece, ha personalizzato tutto. Alle Europee del 2014 era arrivato al 41 per cento. Ma allora era il volto nuovo. Era un protagonista ancora non sperimentato, però era fresco, pieno d’iniziative e di energia, combattivo. Aveva sbaragliato i vecchi dirigenti del partito. Poi, via via, si è capito che non era così. Perché una cosa è la leadership, un’altra è la personalizzazione. Renzi si è convinto che bastasse la sua persona a risolvere tutto, e l’ha pagata.

È stato così anche alla Rai. «Un’azienda culturale senza più padroni», aveva promesso Renzi, scegliendo Antonio Campo Dall’Orto. Ora invece anche l’era del nuovo direttore generale sta finendo male: i renziani gli sparano addosso un giorno sì e l’altro pure, e c’è un’inchiesta penale in arrivo.
È stato così alla Rai, ma anche altrove, quando i suoi nominati hanno assunto posizioni autonome e ogni volta ha ritenuto fossero diventati suoi nemici. È stato così con Carlo Calenda, per esempio. Renzi lo aveva scelto come rappresentante in Europa, poi lo ha scelto come ministro per lo Sviluppo economico. Ora però è in polemica con lui perché ha le sue posizioni. La stessa cosa è accaduta in Rai: Campo Dall’Orto ha fatto scelte giuste o non giuste, ma comunque “sue”. Questo è uno dei peggiori limiti di Renzi, e della sua capacità di governo: non può circondarsi di replicanti. Un altro esempio è Federica Mogherini, che Renzi ha scelto come rappresentante della politica estera europea al posto di Massimo D’Alema: ora Renzi è in pessimi rapporti anche con lei. Invece un vero leader deve avere rapporti politici soft con tutti quelli che sceglie e nomina. Renzi può comportarsi diversamente con la sua cerchia stretta, il suo Giglio magico, ma non con tutti.

Anche nel Pd è andata allo stesso modo?
È mancata la collettività. Concentrandosi sul governo, ma conservando la segreteria, Renzi ha lasciato il partito senza direzione e lo ha abbandonato ai vecchi notabili. Così il rinnovamento s’è perduto. E s’è visto bene che cosa questo abbia significato, a Roma e soprattutto nel Mezzogiorno.

«Troppi social e poco Mezzogiorno», aveva detto lei due anni fa, da buon siciliano…
Io credo che il Pd negli ultimi tre anni non abbia avuto proprio una politica meridionale. E Renzi qui potrà anche avere mietuto successi nelle primarie, grazie ai notabili. Ma le politiche per il Mezzogiorno sono fondamentali per l’intero paese. Qui invece non c’è un’idea. Ed è il sintomo di una disperante debolezza di analisi.

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Come sulla disoccupazione. Com’è possibile che un partito di sinistra come il Pd non proponga soluzioni credibili?
Non credo ai miracoli. La situazione economica è grave, e l’Europa ci ha messo del suo. Scontiamo una politica che non ha affrontato le novità vere della globalizzazione. C’è stato un ritardo e un’assenza d’innovazione nella politica economica: Renzi si è basato sull’oggi e su una polemica sterile con l’Unione Europea. Ha creduto così di contrastare le forze antieuropee, ma senza porre problemi veri. Così anche nell’occupazione siamo in ritardo, in coda rispetto agli altri paesi. Malgrado un bravo ministro dell’Economia come Pier Carlo Padoan. È mancata la guida.

Eppure Renzi si è sempre presentato come un condottiero. Si è atteggiato ora a Tony Blair, ora a Barack Obama: ma per lei chi è, davvero, Matteo Renzi?
Blair e Obama sono paragoni senza senso, giochetti mediatici che lasciano il tempo che trovano. Renzi è… Renzi. È il figlio della crisi politica italiana. È il figlio della nostra crisi dei partiti, figlio della crisi della cultura politica. Un po’ come Silvio Berlusconi, con il suo partito-azienda e le sue capacità mediatiche, Renzi è un prodotto della crisi del sistema politico italiano. Renzi non è Berlusconi, ma hanno la stessa genesi. Ed è vero che l’antipolitica s’incarna nei Cinquestelle. Ma anche Renzi è dentro questa crisi: non è riuscito a uscirne o a indicare una strada per costituire nuovi modelli di partito.

Dopo la vittoria al primo turno delle presidenziali francesi, Renzi scimmiotta anche Emmanuel Macron, perfino nello slogan della sua corrente: «In marcia!». È plausibile quel modello di centrosinistra francese per l’Italia?
Questa dei modelli culturali da imitare è un’altra idea che non mi piace. La storia di un paese è diversa da quella degli altri. Per questo, richiamarsi alla Francia è un altro grave errore (di Renzi, ndr): là c’è un sistema semipresidenziale con un sistema elettorale diverso, il doppio turno. La stessa crisi della sinistra, in Francia, ha motivazioni differenti da quelle della sinistra italiana. Quanto a Macron, vedremo come gli andrà al secondo turno e che cosa riuscirà a fare alle elezioni per il Parlamento, se avrà un gruppo consistente o no. Insomma, Macron ha davanti a sé una strada quantomeno complicata.

Cosa farà Renzi ora che è tornato in sella da segretario? Farà cadere Gentiloni?
Intanto a fine maggio ci sarà il G7 a Taormina, ed è impossibile che a tenerlo sia un governo dimissionario.

Per andare al voto, del resto, servirebbe una nuova legge elettorale…
Esattamente. Lo ha detto il capo dello Stato: prima di andare al voto occorre una nuova legge elettorale, e lo stesso ha detto la Corte costituzionale. E poi, su che cosa Renzi potrebbe provocare la crisi di governo? Gentiloni è impegnato su una serie di problemi gravi, a partire dall’Alitalia. Non credo che una crisi di governo sarà facile.

Ne è certo? Ricordi il precedente di Enrico Letta: e se arrivasse un tweet #Paolostaisereno?
Non penso. Anche perché credo si opporrebbe il presidente Sergio Mattarella. Se anche Renzi dovesse indurre Paolo Gentiloni a dimettersi, il Quirinale potrebbe rinviarlo alle Camere. A quel punto il Pd voterebbe contro il suo governo? Sarebbe uno spettacolo straordinario. Per questo non sarà così facile arrivarci, anche se lui (Renzi, ndr) e alcuni dei suoi lo lasciano intendere.

Lei pensa che a sinistra del Pd sia possibile un’aggregazione che vada da Giuliano Pisapia a D’Alema, da Pier Luigi Bersani a Sinistra ecologia e libertà?
Pisapia è stato chiaro: ha detto che è «per il centrosinistra», il che senza il Pd non è possibile. Renzi però non ha risposto. Così Pisapia ha aggiunto: se il segretario del Pd non ci sta, nascerà qualcosa a sinistra. Ecco, in quel caso si aprirebbe anche un nuovo problema per il Pd, con il rischio di un nuovo smottamento della sua base elettorale verso sinistra. Il vero problema, però, è che Renzi, anche in queste primarie, non ha detto nulla, né ha fatto alcuna proposta politica. Mentre i suoi due concorrenti sono stati chiari. Andrea Orlando ha detto: «Io sono per il centrosinistra unito», e Michele Emiliano ha scelto il rapporto con il Movimento 5 Stelle.

Alle primarie del Pd lei aveva manifestato simpatia per il candidato Andrea Orlando: perché?
Perché ha detto di voler fare il segretario del Pd per riorganizzarlo, senza puntare a Palazzo Chigi. È stato onesto, serio. E poi per la sua linea politica. Orlando ha detto chiaramente che vuole il centrosinistra. La sua era l’unica via per uscire dall’equivoco degli ultimi anni. Renzi, al contrario, non ha detto nulla. Si è tenuto le mani libere. È stata la sua ultima furbizia. Ma in politica le furbizie non sempre pagano. Anzi…

@mautortorella

Foto Ansa

Tags: Emanuele MacalusoMatteo Renziprimarie pd
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