«Il lavoro si trova, è quello manuale: i ragazzi devono capire che è dignitoso»

Di Daniele Ciacci
27 Febbraio 2012
L'Italia è il quarto paese in Europa per abbandono scolastico, mentre crescono le iscrizioni agli istituti professionali. Intervista a Dario Nicoli, docente di Sociologia economica all'Università Cattolica: «La laurea non assicura più un lavoro remunerativo ma se tanti ragazzi abbandonano l'istruzione è colpa dell'organizzazione scolastica».

È scattato l’allarme abbandono scolastico. Un quinto degli studenti delle scuole superiori lascia il proprio percorso formativo prima del diploma. L’Italia è il quarto paese in Europa, con il 18,8 per cento di abbandoni, rispetto a una media internazionale che sfiora il 12 per cento. Tuttavia, si sta assistendo a una recente proliferazione d’iscrizioni per gli istituti tecnici e professionali. Quasi che questi ultimi possano garantire un migliore inserimento nel mondo del lavoro, escluso ai licei. Tempi.it ne parla con Dario Nicoli, docente incaricato di Sociologia economica all’Università Cattolica di Brescia.

In un momento di crisi economica, si punta alla professionalizzazione?
È un modesto cambiamento di tendenza, al quale hanno concorso diversi fattori. Attualmente vige ancora l’idea, conseguenza del valore legale del titolo di studio, che la laurea assicuri un lavoro più remunerativo. Ma non è più così. I percorsi formativi lunghi, tranne se tecnico-scientifici, creano tempi maggiori d’inserimento nel mondo del lavoro. Una persona, dopo una lunga trafila di stage, diventa autonoma solo sui trent’anni di età. Uno studente professionale di 17-18 anni ha già un lavoro. Ha un reddito contenuto, ma diretto. E ha più tempo per specializzarsi attivamente. A trent’anni, se è sveglio, ha già creato una sua impresa.

In che cosa ha fallito la “licealizzazione”?
È un riflesso di quanto si è creduto negli anni ’80. I genitori invogliavano i figli a proseguire gli studi perché il mercato del lavoro non era in grado di accogliere figure non specializzate. Oggi, ripeto, non è così. Bisogna investire in una istruzione che abbia legami più stretti con le occupazioni. Perché negli ambiti tecnici la necessità di coprire alcune posizioni è impellente. In tutto – tra tecnici elettricisti, venditori, personale amministrativo, autisti – sono vacanti tra i 70 mila e i 120 mila posti di lavoro.

Di conseguenza, è utile un ritorno agli istituti professionali?
È vantaggioso per tutti. A patto che sia fatto bene. Bisogna evitare che studenti demotivati stazionino sui banchi di scuola. La perdita di impegno, tra l’altro, nasce quando l’offerta formativa non sposa i desideri dello studente. C’è chi vuole imparare “praticamente”, ma viene indirizzato a scuole “teoriche” per un presunto prestigio sociale. Questa è conseguenza anche dal calo demografico: riducendosi il numero di figli, si cerca di farli studiare tutti, vedendo nei lavori tecnici un fallimento.

È un problema che ha radici culturali, allora…
Sì. Ci sono ancora stereotipi negativi sul lavoro meccanico, un ambito completamente trasformato da pochi anni fa. Si pensa ancora che il lavoro migliore sia quello impiegatizio, sicuro e proficuo. Il lavoro meccanico sarebbe soltanto pratica, fatica, senza alcuna dimensione culturale, disumano. Ma oggi la cultura, sia quella tecnico-scientifica che umanistica, è molto intrisa di lavoro. Non si può avere come modello di riferimento l’ideale astratto del “cittadino educato sui libri”.

L’Italia è il quarto paese in Europa per dispersione scolastica (prima ci sono solo Malta, Portogallo e Spagna). Quali sono le ragioni?
Una miopia nell’organizzazione scolastica. Faccio un esempio. L’abbandono delle scuole superiori vede, in prima posizione, gli istituti tecnici-professionali. Il motivo è semplice: sono stati “liceizzati” a loro volta. Questi corsi hanno più di undici materie da due ore ciascuna, e delle trentadue ore settimanali solo sei sono in laboratorio. Un tecnico non può studiare tutto in “via astratta”.

Non può essere l’attuale mancanza di lavoro che spinge i giovani a non impegnarsi?
Il lavoro c’è. A Perugia, durante un incontro di industriali, hanno detto chiaro e tondo che non si trova più un tecnico meccanico. Quelli che hanno studiato per questo o hanno proseguito studi accademici o aspettano che venga a suonare alla porta il “Lavoro con la L maiuscola”. Ma non è più come negli anni Ottanta o Novanta. Le società, così come le persone, tendono a vedere le “cose nuove con gli occhiali vecchi”. Si ragiona allo stesso modo, ora come allora. Ma adesso serve investire in percorsi che siano espressione dei talenti, e allo stesso tempo coerenti con le attività occupazionali. E far capire ai giovani che anche il lavoro manuale può essere degno.

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