Il grande capitale della speranza
Articolo tratto dal numero di luglio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
È il momento di ripartire. Ma per ripartire occorre sapere dove siamo, da cosa possiamo ripartire e ancor più verso dove vogliamo andare.
La situazione in cui siamo è presto detta: questa crisi è stata innanzitutto sanitaria, ma oggi questa è alle spalle. Lo confermano i dati: decessi, terapie intensive, ricoverati, contagiati sono tutti in calo, con una curva che si sta lentamente appoggiando verso lo zero. La pandemia certo potrebbe ripartire, ma la crisi da sanitaria si sta tramutando in crisi economica e sociale. Già prima del Covid-19 in Italia eravamo messi male: nel 2019 siamo cresciuti un quarto dell’area euro, nell’ultimo trimestre eravamo in recessione (-0,3 per cento di Pil), con calo dei consumi privati, aumento della disoccupazione e dei contratti di lavoro temporanei o precari. Ora le stime sul Pil parlano per il 2020 di una recessione fra il -9 e il -13 per cento, e di un debito pubblico che salirà al 160 per cento del Pil. La cassa integrazione è esplosa, molte partite Iva e professionisti non hanno ancora ricevuto il sostegno promesso, i licenziamenti, per ora bloccati, arriveranno già a settembre perché molte imprese non è detto che riapriranno.
Dunque, da cosa possiamo ripartire? Da quello che ci ha permesso di stare in piedi e resistere anche durante il lockdown: dalla speranza. Non quella dell’“andrà tutto bene”, perché abbiamo visto che non è sempre così. La speranza di chi, anche nelle difficoltà, ha un motivo per non smettere di agire positivamente dentro la realtà, di costruire, di fare il bene.
Il coraggio di rischiare
Quella odierna è una situazione che per certi versi ricorda l’immediato Dopoguerra: entrambe le circostanze storiche condividono la necessità di una ripartenza che possa non essere una semplice ripresa delle attività che si sono interrotte, ma che comporti un cambiamento. Le condizioni di vita degli anni che seguirono la Seconda Guerra mondiale furono sicuramente più critiche, ma la gente ebbe da spendere il grande capitale della speranza, frutto del tessuto cattolico che ancora permeava la penisola e del pensiero liberale e socialista che convivevano insieme.
Se questa speranza è nutrita genera responsabilità, creatività, tenacia e coraggio. Oggi più che mai abbiamo bisogno di genitori, educatori, imprenditori, lavoratori e politici che abbiano il coraggio di assumersi dei rischi. Ma cosa rende possibile assumersi dei rischi nelle difficoltà? Solo la speranza. Altrimenti ogni decisione diventa un’occasione per coprirsi le spalle, per evitare pericoli, usando regole, procedure, leggi, norme, modelli, che mai come in questo momento hanno mostrato i loro limiti.
Oggi la lotta è tra speranza e paura, nella società come dentro ciascuno di noi, e tante volte la paura sembra prevalere. «Perché avete paura?», chiede Gesù agli apostoli. Questa domanda ci è stata riproposta la sera del 27 marzo da papa Francesco in preghiera in una piazza San Pietro deserta. Certo, abbiamo paura perché questo tempo ha messo in discussione sicurezze, benessere, progetti e abitudini. Eppure, nella paura, abbiamo visto tante persone che, reagendo, hanno donato persino la propria vita: tanti medici e infermieri che si sono presi cura dei malati. Ma tanti altri hanno “donato” la propria vita, con sacrificio e dedizione, come i molti imprenditori che ho incontrato in queste settimane, che hanno riconvertito la propria attività per produrre mascherine e dispositivi di protezione, scegliendo di non chiudersi in casa ad aspettare che la tempesta passasse, ma dandosi da fare per aiutare chi era nel bisogno. Perché? Perché avevano una certezza presente più forte della paura.
Nel tempo della ripartenza la paura rimane, ma domandiamoci: dove vogliamo andare? Verso un tempo in cui vinca la paura e quindi inesorabilmente dovremo cercare di appoggiarci e trovare conforto in qualcosa che la esorcizzi e a cui affidare il compito di rispondere a tutti i bisogni? Qui trova terreno fertile l’ondata statalista che sta permeando la politica nazionale. Si pensa che lo Stato, occupandosi di tutto e, assistendo il cittadino, possa mantenere viva la speranza. È una illusione di successo, ma resta una illusione pericolosa. Dov’è l’uomo in questa visione? È ridotto a una appendice dello Stato, da cui dipende e a cui deve tutto.
Un cambio di paradigma
Mai come oggi abbiamo bisogno di qualcosa che renda visibile e concreto il germe della speranza. Come è possibile? Attraverso l’esempio contagioso di persone che siano portatrici di una speranza concreta e che sappiano mettersi al servizio del bene comune. Persone così hanno qualcosa da proporre come dono. Il dono interroga, porta ad aprirsi, genera una costruzione che va altre il calcolo economico, introduce una ragione di convenienza più grande, generativa di per sé, come ha ben spiegato il professor Mauro Magatti. Persone così rimettono in moto la società e la sua capacità di risposta creativa e positiva al bisogno.
Questo movimento della persona e della società diventa un fattore di cambiamento. Personale, innanzitutto, ma anche sociale e politico. Del resto, le sfide che abbiamo di fronte in questo secolo, come la sostenibilità, la digitalizzazione, la globalizzazione, non troveranno risposta solo grazie a buone politiche. Esse hanno bisogno di un cambiamento della persona. Ne è un esempio il rapporto tra uomo e ambiente: l’equilibrio con la natura, la lotta al cambiamento climatico, l’uso razionale delle risorse sono condizioni per il benessere e la salute di ciascuno di noi, ma non possono essere affidate solo allo Stato. Come ha suggerito papa Francesco, «tutti dovremmo essere più responsabili della cura della casa comune». Da questa pandemia possiamo cogliere la necessità di un cambio di paradigma, che si deve fondare su un nuovo modello di sviluppo sostenibile.
Sostenere la creatività
Consentitemi di concludere con una riflessione politica. Oggi la politica mostra i propri limiti nella capacità di fornire risposte adeguate anche perché è urlata, non ragionata: rincorre il consenso sulla base di reazioni istintive e di emozioni. In passato le decisioni politiche erano figlie di una visione del mondo e della realtà, fosse essa liberale o marxista, democratica o collettivista, democristiana o comunista. Una politica che non abbia alla base una cultura è sterile, come un fuoco di paglia durerà poco e non riscalderà nulla. Molto della nuova ondata di statalismo dipende proprio dalla debolezza della cultura politica di chi oggi si contende il consenso dei cittadini.
Nel tempo della ripartenza va riscoperta la cultura politica della sussidiarietà! Non sarà lo Stato a farci ripartire, ma il gusto di costruire risposte creative al bisogno proprio di ogni iniziativa sociale, economica, culturale, che nasca da una posizione umana capace di speranza. Dunque, il compito dello Stato e della politica è innanzitutto quello di sostenere queste iniziative. Questa è la cultura politica della sussidiarietà. Senza una cultura politica all’altezza della sfida non ci saranno risposte adeguate nel momento più difficile della crisi, che è quello che deve ancora venire. Per questo, oggi è il tempo di un nuovo protagonismo della società e dei corpi intermedi, vero antidoto alla paura e sostegno della speranza.
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Raffaele Cattaneo, autore di questo articolo, è assessore all’Ambiente e clima della Regione Lombardia
Foto pxhere.com
Foto Raffaele Cattaneo: Ansa
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