Il “dettaglio” dimenticato nelle commemorazioni di Rosario Livatino

Di Alfredo Mantovano
15 Ottobre 2020
È stato un modello di magistrato, svolgendo il suo lavoro con elevata professionalità, senza clamore, in periferia. Tutto questo nonostante o grazie la fede in Cristo?
Rosario Livatino

Articolo tratto dal numero di ottobre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Per un magistrato avere una fede viva e radicata è un problema? Mi spiego meglio: premesso che per un giudice è essenziale essere preparato, rigoroso e oggettivo, quanto la sua religiosità viene percepita come limitativa di tali qualità? Chiederselo non è astruso: l’egemonia del correct non risparmia il mondo giudiziario e forense, al cui interno impera la pretesa di neutralità, anche confessionale, quale garanzia di imparzialità, e quindi guarda con sospetto il portatore, pur sano e non invasivo, di virus religioso. Come storia e cronaca insegnano, la sbandierata neutralità non ha però mai precluso la militanza – nel senso proprio del termine – in correnti e la condizionabilità ideologica: l’invenzione e il lancio dei cosiddetti nuovi diritti, pervenuta fino al vertice della Corte costituzionale, ne costituiscono conferma.

Sarà per ossequio al correct che larga parte dei messaggi ufficiali e dei discorsi – perfino i più autorevoli – pronunciati nella ricorrenza dei 30 anni dalla tragica morte di Rosario Livatino hanno omesso di ricordare che nei suoi confronti da circa due anni si è conclusa positivamente la fase diocesana del processo di beatificazione, e più in generale che la radice della sua esemplarità risiedeva nella fedeltà a Cristo. Con qualche bella eccezione: in primis l’omelia pronuncia dal presidente dei vescovi, il cardinale Gualtiero Bassetti, nella Messa celebrata il 21 settembre su iniziativa del Centro studi che a Livatino è dedicato.

Perché dava fastidio

Qual è la particolarità di Livatino magistrato? Certamente non è stato lo stratega del contrasto alla criminalità mafiosa, come Giovanni Falcone, cui si deve l’avere per la prima volta, attraverso il maxiprocesso di Palermo nella seconda metà degli anni Ottanta, permesso la visione d’insieme di Cosa nostra, essenziale per dimostrare il vincolo associativo, e per applicare la norma dell’articolo 416 bis, da poco introdotta nel codice penale; e l’avere poi trasferito questa prospettiva sull’intero territorio nazionale, nel periodo di lavoro al ministero della Giustizia. Né è stato il generoso realizzatore di tale strategia sul territorio siciliano, in particolare nel distretto di Palermo, come Paolo Borsellino.

Livatino è stato dapprima pubblico ministero, poi giudice, di una città di provincia: in Italia si è saputo di lui il giorno in cui è stato ucciso, prima era sconosciuto. Eppure è stato un modello di magistrato: quello che, senza clamore, in un luogo periferico, svolge il suo lavoro con elevata professionalità. Dava fastidio alla stidda operante sul territorio agrigentino perché redigeva provvedimenti di sequestro e di confisca dei beni di provenienza mafiosa: oggi sono fra gli strumenti più diffusi di contrasto delle organizzazioni criminali, all’epoca – con una legislazione ancora poco articolata – erano poco praticati. E per questo facevano ancora più male: il mafioso non gradisce finire in carcere, ma se accade è nel conto; se però gli sottrai i beni, lo hai colpito nell’onore e nella credibilità, perché gli hai tolto il controllo del territorio. I decreti di prevenzione patrimoniale a firma di Livatino erano scritti così bene che reggevano ai gradi successivi di giudizio.

La decisione che avvicina a Dio

Non ha fatto solo questo, ma per questo ha pagato con la vita. Senza enfasi, senza mai apparire, rispettando gli imputati e le loro garanzie difensive. È comparso in pubblico solo due volte, per tenere due conferenze, i cui testi sono disponibili, dal contenuto più attuale oggi rispetto al momento in cui le ha pronunciate.

Tutto questo è accaduto nonostante o grazie la fede in Cristo? «Il compito del magistrato – sono sue parole – è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata».

Chi ragiona così arricchisce o depaupera l’esercizio della giurisdizione?

Foto Ansa

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