Rosario Livatino, un magistrato “formato” dalla fede
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La morte per mano mafiosa garantisce gloria indiscussa e perenne, rende automaticamente eroi. È giusto così ma c’è un rischio: quello di finire ricordati, venerati e – di anno in anno sempre più retoricamente – celebrati a prescindere. A prescindere da ciò che si è fatto, detto e pensato, da ciò che si è amato. Si rischia qualcosa di simile, per la verità, anche quando si è oggetto di un processo di beatificazione che tanta fiducia incontra di anno in anno.
Il rischio, in questo caso, è il “ritrattino” agiografico: far prevalere il martire sull’uomo, l’attrazione dei miracoli sull’esempio delle ragioni, la purezza del santo sulla drammaticità della vita.
Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” ucciso ad Agrigento nel 1990 all’età di 38 anni, è stato molto altro e molto più. E molto di più può essere, ancora oggi, per noi.
Si tratta di affondare cuore e intelligenza nell’apparentemente “poco” che ha lasciato per iscritto: i testi di due sole conferenze, gli appunti del suo diario, qualche tema scolastico e quasi nulla più. Il materiale non è immenso, ma il suo peso specifico sì.
È sufficiente, per coglierlo, imbattersi in parole potenti come quelle che seguono. A parlare è un magistrato, che riflette su di sé e sulla propria professione:
«Decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare […] Ed è proprio in questo scegliere per decidere che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata».
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]«Il rendere giustizia è preghiera». «Amore per la persona giudicata». Sono parole da leggere e rileggere, da pesare in tutta la loro dirompente forza rivoluzionaria: l’unica possibile, quella cristiana, l’unica che davvero rovescia i ruoli, come quello tra chi giudica, e quindi ha il potere, e chi deve essere giudicato.
Provava a fare il giudice così, Rosario Livatino. O meglio, provava a farlo da lì, da quel “punto di vista”. E sia da intendere, il “punto di vista”, nel senso letterale delle parole: il punto da cui si guardano le cose. Il quale è, per un cristiano, (da quando lo ha fatto Cristo per primo) il luogo da cui le guarda Dio. Quello di un padre, appunto, che tutto ha fatto e tutto ama. Sono parole tratte dalla conferenza “Fede e Diritto”, tenutasi presso l’Istituto delle Suore Vocazioniste, a Canicattì, il 30 aprile 1986.
Ci si trova una ricchezza straordinaria, concetti sorprendenti come questo:
«Entrambi, il giudice credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia. E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società – che una somma così paurosamente grande di poteri gli affida – disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione».
È una posizione umana, prima che cristiana: un atto di ragione. Ma chi può davvero esercitare questa umiltà? E infatti Livatino, subito dopo, aggiunge:
«Sarà la legge dell’amore, la forza vivificatrice della fede a risolvere il problema radicalmente. Ricordiamo le parole del Cristo all’adultera: “Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra”; con esse egli ha additato la ragione profonda della difficoltà: il peccato è ombra e per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta».
La sua riflessione è espressione di una fede come conoscenza, che cambia il modo di fare, che appunto “vivifica”. Fa compagnia all’uomo, lo rende concretamente capace di ciò che non sarebbe in suo potere: la vera umiltà.
Così concludeva:
«I non-cristiani credono nel primato assoluto della giustizia come fatto assorbente di tutta la problematica della normativa dei rapporti interpersonali, mentre i cristiani possono accettare questo postulato a condizione che si accolga il principio del superamento della giustizia attraverso la carità».
Di solito, chi detiene un potere, tende a sottolinearne la centralità, l’essenzialità: lo si fa per pesare di più. Lui, invece, ne riconosceva e segnalava i limiti: “la giustizia è necessaria, ma non sufficiente”.
Condannare, ma capire
Erano i tempi in cui del protagonismo dei giudici si cominciava a parlare. Dovevano ancora venire gli anni di Mani Pulite: Di Pietro, De Magistris e Ingroia, con i loro show, ancora lontani. Eppure Livatino, già nel 1984, stigmatizzava
«l’atteggiamento che, talvolta, i giudici avrebbero assunto, o potrebbero assumere, presentando all’opinione pubblica l’immagine di una giustizia parziale, fiancheggiatrice del potere politico, di un partito politico o di un gruppo di potere, pubblico o privato». (Conferenza presso il Rotary Club di Canicattì il 7 aprile 1984).
Lo faceva, però, con il realismo di chi sa che il giudice è anche uomo, al quale si chiede di essere
«non una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire».
«Capace di condannare, ma anche di capire». Era, la sua, una fede che voleva “informare” la sua professione, darle cioè una forma. Un’esperienza da cui, almeno come tentativo, provava a farsi cambiare.
«Qualcosa si è spezzato»
Ma da quale fede è derivata questa coscienza? È la domanda che investe la causa di beatificazione del servo di Dio, portata avanti con dedizione dal postulatore don Giuseppe Livatino, ma anche quella che ha orientato il bellissimo docufilm del 2007 di Salvatore Presti dal titolo Luce verticale – Rosario Livatino – Il martirio, che ha avuto il pregio di approfondire, attraverso testimonianze e racconti dei conoscenti, il rapporto tra fede e vita del magistrato, molto più di quanto non lo abbia fatto il noto film del 1994, Il giudice ragazzino, con cui l’attore Giulio Scarpati vinse il David di Donatello.
Da quale fede e da quale vita è derivata questa coscienza, dunque? Una fede tutta umana, si potrebbe rispondere; non priva, perciò, di tutte le ombre e contraddizioni che una vita porta con sé. «Il mio spirito continua a iscurirsi» scriveva. Come ha documentato il giornalista del Corriere Luigi Accattoli, «nelle agende dal 1984 al 1986 ci sono accenni drammatici a una crisi di coscienza, dovuta, pare, a minacce e condizionamenti».
«Vedo nero nel mio futuro. Che Dio mi perdoni» scriveva il 19 giugno 1984; «Qualcosa si è spezzato. Dio avrà pietà di me e la via mostrerà?» scriveva ancora nella notte di Capodanno del 1984. Un cammino di fatica e tristezza, fino al bellissimo “ritorno a casa” del 27 maggio 1986. Velato di paura, ma certo nella preghiera:
«Oggi, dopo due anni, mi sono comunicato. Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori».
Era la stessa agenda su cui erano vergate le lettere STD («Sub tutela dei»: sotto lo sguardo di Dio”). Da quel Dio sapeva di essere guardato, con quel Dio dialogava sempre, anche nei momenti bui.
«È bello leggere nelle sue agende – ha scritto Domenico Airoma – le parole con le quali delicatamente descriveva gli innamoramenti che lo scuotevano e che, però, spesso conoscevano esiti infelici, provocando in lui un senso di malinconica rassegnazione alla solitudine».
Era un “single”, si direbbe oggi, ma la sua vita poggiava su altro. Non mancarono problemi neppure nel suo lavoro, dove dovette subire velate accuse di protagonismo, proprio lui che non volle mai rilasciare interviste a stampa e tv.
«Cattolici si diventa»
Viveva i problemi della vita, visse quella della fede. Nella Chiesa cercava risposte, ma non con la superficiale adesione di chi replica modi e forme di una tradizione per cui non arde, ma con la fame e con la sete di chi deve trovare qualcosa di vero per sé. Non si spiegherebbe altrimenti la sua decisione di ricevere il sacramento della Confermazione nel 1988, già 36enne, e di farlo con l’evitabile, per un magistrato, scelta di andarsi a sedere per ascoltare in anonimato, tutte le settimane, il catechismo di preparazione.
Non era il cristiano arrivato, Livatino: era il cristiano che cercava. Lo ha espresso, con parole bellissime, il suo professore di Filosofia del liceo, Giuseppe Peritore, di militanza comunista:
«Il suo cattolicesimo se lo è conquistato pezzo pezzo, perché cattolici cristiani si diventa, non si nasce».
Sono parole profondamente vere, perché colgono forse l’essenza della sua esperienza di fede: conquista, lotta, cammino.
Il Centro Studi a lui dedicato
Questa sua serietà di impegno nel legame tra fede e lavoro è al cuore di una viva realtà che da meno di due anni muove i suoi passi: il Centro Studi Rosario Livatino, nato da un gruppo di giuristi (magistrati, avvocati, docenti universitari) che si ispirano alla sua testimonianza etica e professionale. Un contesto che prova a guardarne l’esempio professionale, lontano dalla retorica del santo o dell’eroe. Il Centro Studi approfondisce in particolare i temi della vita, della famiglia e della libertà religiosa, avendo come quadro di riferimento il diritto naturale. Un tentativo che guarda alla centralità delle sfide che lui stesso aveva a cuore. Attento al tema dell’eutanasia, grande propugnatore del diritto dell’obiezione di coscienza.
Il Centro Studi, tra le altre cose, ha già proposto due importanti convegni. L’anno scorso, per l’anniversario della morte, uno dal titolo: “25 anni dopo. Rosario Livatino: Diritto, etica, fede”. L’ultimo, recente e di grande rilievo, dal titolo: “Coscienza senza diritti?”. «L’obiezione di coscienza rappresenta il riconoscimento del foro interno da parte dello Stato laico» scriveva Livatino, come ha ricordato a Tempi Domenico Airoma, (Procuratore della Repubblica aggiunto al Tribunale di Napoli Nord), uno dei vicepresidenti del Centro Studi assieme ad Alfredo Mantovano e Filippo Vari. Il presidente è Mauro Ronco, ordinario di Diritto penale dell’Università di Padova.
Lievi nuvole
C’è anche un altro fatto bello e recente, in questa sua vita che cambia e “informa” altre vite. È l’atto di pentimento, reso noto nel mese di giugno, di Gaetano Puzzangaro, uno degli uomini del commando che lo uccise. Ha scritto una lettera che gli è valsa l’ascolto per la Postulazione della causa di beatificazione. Si dice cambiato e nel carcere di Opera si dedica ai libri e scrive poesie. Una di queste si intitola “Lievi nuvole” e recita così:
«Profonda notte, chiama insonnia. Il soffitto mi impedisce di perdermi nell’immensa notte stellata. Mi rendo conto che il carcere mi ha insegnato a poco a poco, piano piano, ad essere uno specialista del silenzio. Basta poco, basta solo un lieve battito d’ali per tornare… dove ero prima, con la mia inseparabile vanga a scavare nei miei bisogni, nei desideri, nelle inquietudini, nelle speranze, nei rimorsi. Mi sussurrano di un altro mondo possibile».
È bello pensarli insieme, in questo atto tanto diverso eppure tanto uguale: il giudice e un uomo del commando che lo uccise. «Il rendere giustizia è una preghiera», scriveva Livatino; anche questa poesia su “un mondo possibile”, in fondo, lo è.
Foto Ansa
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