Il cardinal Pell racconta i 13 mesi in carcere: «Ho visto una moralità sorprendente»
Per gentile concessione di First Things, proponiamo di seguito in una nostra traduzione il racconto in prima persona degli oltre 400 giorni passati in carcere per una falsa accusa di pedofilia dal cardinale australiano George Pell, già arcivescovo di Melbourne e di Sydney e prefetto emerito della Segreteria per l’Economia della Santa Sede. L’articolo è pubblicato nel numero di agosto 2020 della rivista americana (qui l’originale in inglese).
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C’è tanta bontà in prigione. Talvolta, ne sono certo, le carceri possono essere l’inferno sulla terra. Sono stato fortunato a essere stato tenuto al sicuro e trattato bene. Sono rimasto impressionato dalla professionalità delle guardie, dalla fede dei carcerati e dalla presenza di una moralità perfino nei luoghi più oscuri.
Sono rimasto in cella d’isolamento per tredici mesi, dieci alla Melbourne Assessment Prison e tre alla Barwon Prison. A Melbourne l’uniforme del carcere era una tuta verde, ma alla Barwon mi hanno dotato dei colori rosso sgargiante da cardinale. Nel dicembre del 2018 ero stato condannato per reati sessuali storici nei confronti di minori, malgrado la mia innocenza e malgrado l’incoerenza delle accuse del procuratore della Corona contro di me. Alla fine (nell’aprile di quest’anno), l’Alta Corte dell’Australia ha annullato la mia condanna con sentenza unanime. Nel frattempo, avevo iniziato a scontare la mia pena di sei anni.
A Melbourne, stavo nella cella 11, unità 8, al quinto piano. La mia cella era lunga sette o otto metri e larga circa due, appena sufficiente per il mio letto, che aveva una base solida, un materasso non troppo spesso e due coperte. Entrando, alla vostra sinistra, c’erano due scaffali con un bollitore, una tv e lo spazio per mangiare. Dall’altra parte dello stretto corridoio c’era un lavabo con acqua calda e fredda e una nicchia per la doccia con acqua ben calda. Diversamente dal molti eleganti hotel, sul muro sopra il letto c’era un’efficiente lampada da lettura. Dal momento che un paio di mesi prima di entrare in prigione entrambe le mie ginocchia erano state sostituite, all’inizio usavo un bastone da passeggio e mi è stata data una sedia d’ospedale più alta, una benedizione. Le regole sanitarie impongono che ciascun carcerato abbia un’ora d’aria tutti i giorni, così avevo il permesso di trascorrere due mezze ore a Melbourne. In tutta l’unità 8 non c’era un solo vetro trasparente, perciò dalla mia cella riuscivo a distinguere il giorno dalla notte, ma non molto altro. Non ho mai visto gli altri 11 carcerati.
Li ho sicuramente sentiti però. L’unità 8 aveva dodici piccole celle lungo un muro esterno, i detenuti “rumorosi” stavano a una delle estremità. La mia cella era nel lato “Toorak”, dal nome di un sobborgo bene di Melbourne, esattamente uguale al lato rumoroso ma di solito senza i botti e le grida, senza gli irrequieti e gli arrabbiati, che spesso erano devastati dalla droga, soprattutto metanfetamine. Mi stupiva quanto a lungo riuscissero a battere i pugni, poi una guardia mi ha spiegato che in realtà scalciavano coi piedi come cavalli. Alcuni allagavano la propria cella o la devastavano. Ogni tanto veniva chiamata l’unità cinofila. La mia prima notte ho creduto di udire una donna che piangeva. Un altro detenuto stava chiamando la sua mamma.
Ero tenuto in isolamento per la mia incolumità, poiché i condannati per violenze sessuali su minori, tanto più se preti, in prigione sono fatti bersaglio di aggressioni fisiche e ingiurie. Mi hanno minacciato in questo senso una volta sola. Ero in una delle due aree per l’allenamento, adiacenti ma separate da un’alta parete, con un’apertura all’altezza della testa. Camminavo lungo il perimetro, quando qualcuno mi ha sputato attraverso la rete metallica dell’apertura e ha iniziato a condannarmi. È stata una sorpresa totale, così sono tornato furioso alla finestra per affrontare il mio aggressore e dirgliene quattro. Quello è scappato fuori dalla mia vista ma ha continuato a condannarmi dandomi del “ragno nero” e altri termini per niente lusinghieri. Dopo la mia sfuriata iniziale, sono rimasto in silenzio, anche se in seguito mi sono lamentato che non sarei più uscito a fare esercizio se quel tizio fosse stato lì accanto. Un giorno dopo o giù di lì, il supervisore dell’unità mi ha detto che il giovane delinquente era stato spostato, perché aveva fatto «qualcosa di peggio» a un altro detenuto.
In poche altre occasioni, durante il lungo isolamento fra le 4.30 del pomeriggio e le 7.15 del mattino, sono stato oggetto di stigmatizzazione e ingiuria da parte degli altri detenuti nell’unità 8. Una sera, ho origliato una violenta discussione riguardo alla mia colpevolezza. Uno, dalla mia parte, si è dichiarato pronto a sostenere l’uomo che era stato pubblicamente difeso da due primi ministri. Tra i prigionieri, i pareri sulla mia innocenza o colpevolezza si dividevano, come in molti settori della società australiana, sebbene i media, tranne alcune splendide eccezioni, mi fossero violentemente ostili. Un corrispondente che aveva passato decenni in prigione ha scritto che di tutti i preti condannati di cui avesse mai saputo, ero il primo che godesse di qualche sostegno tra i carcerati. E dai miei compagni detenuti nell’unità 3 del carcere di Barwon ho ricevuto soltanto gentilezza e amicizia. La maggior parte delle guardie di entrambi i penitenziari riteneva apertamente che fossi innocente.
Nel mondo anglosassone l’avversione nei confronti degli stupratori di bambini è universale tra i carcerati, interessante esempio della legge naturale che si fa largo attraverso il buio. Tutti noi siamo tentati di disprezzare coloro che riteniamo peggiori di noi. Perfino gli assassini condividono lo sdegno verso chi vìola i giovani. Ancorché ironico, questo sdegno non è tutto negativo, poiché rivela una fede nell’esistenza del bene e del male, del giusto e dell’errore, che spesso in galera emerge in modi sorprendenti.
In molte mattine nell’unità 8 riuscivo a sentire le cantilene della preghiera musulmana. In altre, i musulmani erano un po’ svogliati e non cantilenavano, anche se forse pregavano in silenzio. Il linguaggio in prigione era volgare e ripetitivo, ma raramente ho sentito maledizioni o bestemmie. Il detenuto che ho interrogato mi ha detto che riteneva questo fatto una prova di fede, anziché un segno dell’assenza di Dio. Sospetto però che i detenuti musulmani, da parte loro, non tollerino la blasfemia.
Mi scrivevano carcerati da molti penitenziari, alcuni con regolarità. Uno era l’uomo che aveva preparato l’altare quando celebrai la Messa conclusiva di Natale alla Pentridge Prison nel 1996, prima che fosse chiusa. Un altro semplicemente diceva di essersi perso nell’oscurità. Chiedeva che gli consigliassi un libro. Gli ho raccomandato di leggere il Vangelo di Luca e di iniziare dalla Prima lettera di Giovanni. Un altro ancora era un uomo di profonda fede, devoto di Padre Pio da Pietrelcina. Aveva sognato la mia liberazione. Si è dimostrato profetico. Uno mi diceva che era opinione diffusa tra i criminali di professione che fossi innocente e fossi stato “fregato”. Aggiungeva che trovava bizzarro il fatto che i delinquenti riuscissero a riconoscere la verità, ma i giudici no.
Come accade alla gran parte dei preti, il mio lavoro mi aveva portato a contatto con un’ampia varietà di persone, dunque non sono rimasto troppo sorpreso dai detenuti. A sorprendermi, e piacevolmente, sono stati i secondini. Alcuni erano gentili, uno o due tendevano a essere ostili, ma tutti sono stati professionali. Se fossero stati fermamente muti, come lo furono per mesi le guardie del cardinale Van Thuan durante il suo isolamento in Vietnam, la vita sarebbe stata molto più dura. Suor Mary O’Shannassy, cappellana cattolica del carcere di Melbourne con trentacinque anni di esperienza, che svolge una bella opera (un uomo condannato per omicidio mi ha detto di sentirsi un po’ intimorito da lei!), mi ha confermato che l’unità 8 è ben gestita. Dopo aver perso l’appello alla Corte suprema dello Stato di Victoria, ho preso in considerazione l’ipotesi di non ricorrere all’Alta Corte australiana. Se i giudici si preparavano solo a serrare i ranghi, ragionavo, non c’era bisogno di partecipare una costosa messinscena. Il capo della prigione di Melbourne, un uomo più grosso di me e persona schietta, mi ha spinto a continuare. Mi ha dato coraggio e gli sono grato.
La mattina del 7 aprile, la tv nazionale ha trasmesso l’annuncio del verdetto da parte dell’Alta Corte. Stavo guardando Channel 7 nella mia cella quando un giovane cronista sorpreso ha informato l’Australia della mia assoluzione ed è apparso ancor più spiazzato dall’unanimità dei sette giudici. Gli altri tre detenuti nella mia unità si sono congratulati con me e poco dopo sono stato liberato in un mondo recluso per il coronavirus. È stato un viaggio strano. Due elicotteri della stampa mi hanno seguito da Barwon al Convento carmelitano di Melbourne, e il giorno dopo due auto della stampa mi hanno accompagnato per tutti gli 880 chilometri di viaggio verso Sydney.
Per molti il tempo passato in carcere è un’opportunità per meditare e affrontare verità fondamentali. La vita in prigione ha spazzato via la scusa che fossi troppo indaffarato per pregare, e il mio programma di preghiera mi ha sostenuto. Dalla prima sera ho sempre letto il breviario (anche se fuori tempo liturgico) e ho ricevuto la Comunione ogni settimana. In cinque occasioni ho partecipato alla Messa, anche se non potevo celebrarla, fatto che mi è spiaciuto particolarmente a Natale e a Pasqua.
La mia fede cattolica mi ha sostenuto, soprattutto la consapevolezza che la mia sofferenza non doveva per forza essere senza senso, ma poteva essere unita a quella di Cristo Nostro Signore. Non mi sono mai sentito abbandonato, nella coscienza che il Signore era con me, sebbene per la maggior parte dei tredici mesi io non capissi che cosa stesse facendo. Per tanti anni avevo detto ai sofferenti e agli afflitti che anche il Figlio di Dio aveva subìto prove su questa terra, e ora io stesso traevo conforto da questo fatto. Dunque ho pregato per gli amici e per i nemici, per i miei sostenitori e per la mia famiglia, per le vittime di abusi sessuali, per i miei compagni detenuti e per le guardie.
Foto Ansa
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