
I poteri forti stanno con chi vince ma le elezioni ancora non danno certezze. Così il Corriere nicchia
Il 9 dicembre fu il primo a raccogliere lo sfogo di un Mario Monti dimissionario. «Forse – scriveva allora il direttore del Corriere della Sera – Alfano non sapeva che con le sue parole ha fatto cadere un esecutivo ma non ha tolto di mezzo un leader. La pressione dei centristi su Monti si intensificherà. E lui non tornerà di certo alla Bocconi». Oggi quella previsione si è avverata e Monti, anche se restio a dirsi centrista, staziona in quell’area. Eppure il feeling tra Ferruccio de Bortoli e il professore che del Corriere è stato apprezzato editorialista sembra essersi raffreddato. Cosa accade? Rispondere significa domandarsi cosa sta cambiando nei capricciosi equilibri politici italiani degli ultimi vent’anni. Vent’anni in cui, se si eccettua la breve parentesi di Stefano Folli (2003-2004), sulla plancia di comando del più importante quotidiano nazionale si sono dati il cambio Paolo Mieli (1992- 1997 e 2004-2009) e Ferruccio de Bortoli (1997-2003 e dal 2009 ad oggi). Se Mieli ha impresso la sua svolta nel 2006 con l’appoggio esplicito a Romano Prodi, oggi a De Bortoli tocca gestire la fine di un ventennio che non è solo quello berlusconiano, ma anche quello dell’onda lunga giustizialista innescata da Mani Pulite nel 1992 e deve farlo nel mezzo della più grave crisi economica del Dopoguerra. La prospettiva Monti, che nel 2011 il quotidiano aveva tessuto in consonanza con spinte nazionali e internazionali, improvvisamente è diventata stretta e insicura.
I NUMERI NON DICONO MONTI. A dirlo sono i sondaggi che costringono l’aura del professore in loden al volgare confronto coi numeri. Sarà che gli italiani sono freschi di Imu e già con un piede nella nuova Tarsu (la Tares), ma per l’istituto Piepoli la lista Monti al Senato non supera il 12 per cento. Tante cose possono cambiare, magari anche grazie alla campagna elettorale a tratti aggressiva del professore (la settimana scorsa la battuta sulla statura accademica di Brunetta ha ricordato a molti Beppe Grillo), eppure ad oggi appoggiare Monti sarebbe molto rischioso in termini di lettori. E, in un momento in cui tutta la stampa è alla canna del gas, al test dell’edicola non è immune neanche il più prestigioso degli organi di stampa. Il ricordo delle copie perse (si parla di un trenta per cento) dopo l’endorsement di Mieli per Prodi nel 2006 non è sbiadito. Il secondo motivo che impedisce a de Bortoli di indossare il loden è il conflitto nell’azionariato stesso del Corriere, perché se l’asse Mediobanca- Fiat si riconosce “naturalmente” nel professore della Bocconi (pur con qualche preoccupazione), dall’altra parte c’è quel Giovanni Bazoli che scommette sulla vittoria di Bersani, come s’intende dalla candidatura col Pd di Massimo Mucchetti (che del presidente di Banca Intesa è amico).
BERLUSCONI PRENDE ANCORA VOTI. In quest’ottica di necessaria prudenza, si spiegano i servizi del Corsera che ridimensionano l’appoggio della Cei a Monti, quelli sul conflitto di interesse dell’udiccino Cesa e l’intervista dello stesso de Bortoli a un Corrado Passera critico sull’agenda del professore. L’altro equilibrio a cui il direttore nazionale deve badare in questa fase è quello con il centrodestra. Il tempo in cui di quell’area rimangano solo spezzoni da liquidare non è ancora arrivato. L’ingombro di Berlusconi è evidente, ma la storia insegna che attaccarlo gli porta voti. Non solo. Ci sono ancora italiani che continuano a guardare a lui. Non per niente la settimana scorsa de Bortoli inaugurava un dibattito sulle prospettive del centrodestra con un editoriale del vice Luciano Fontana che, grossolanamente, si può tradurre così: il centrodestra prende ancora voti, è necessario capire che cosa farne. anche in via Solferino, infine, si sa che chi ha più possibilità di vincere è Pier Luigi Bersani, tanto più che il coinvolgimento di Matteo Renzi potrebbe allargare il Pd al centro, erodendo consenso proprio a Monti oppure (prospettiva non irrealistica) gettando le basi per una collaborazione dopo il voto. L’adagio dice che i poteri forti stanno con chi vince. E su chi vince è meglio non scommettere troppo presto, se si vuole avere un ruolo all’indomani delle elezioni. E questo il navigato direttore del Corriere lo sa bene.
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