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Il Deserto dei Tartari

I “femminicidi” non dovrebbero più essere chiamati così

Rodolfo Casadei
18/10/2021 - 12:42
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Manifestazione Non una di meno contro il femminicidio e la violenza sulle donne in piazza castello, Torino, 17 aprile 2021
Manifestazione Non una di meno contro il femminicidio e la violenza sulle donne in piazza castello, Torino, 17 aprile 2021

Tranne gli assassini in questione, tutti vorremmo poter ridurre il numero dei cosiddetti “femminicidi”, e infine azzerarlo. Nonostante l’introduzione di leggi più severe e della generale esecrazione di questi delitti, il numero di donne uccise ogni anno diminuisce molto più lentamente del numero di uomini uccisi per qualsiasi motivo, fino quasi alla stasi. Forse allora bisogna battere strade diverse da quelle finora battute. Un nuovo inizio e un nuovo tentativo potrebbe essere quello di smettere di chiamare questi delitti “femminicidi”, e tornare a chiamarli come si è sempre fatto, dai tempi delle tragedie di Euripide a quelli shakespeariani di Otello e Desdemona, fino alla Carmen di Bizet: delitti passionali.

Il desiderio incontrollabile

Per combattere questo delitto, dobbiamo guardare più a ciò che ha in comune con altri delitti piuttosto che a ciò che si pretende che abbia di distinto ed esclusivo. “Femminicidio” allude al fatto che la donna è uccisa “in quanto donna” da un uomo “in quanto uomo”: cioè possessivo, aggressivo, violento. Ma non è così. Anzitutto la donna viene uccisa non in quanto donna, ma in quanto donna che ha detto di “no” a un uomo. Ha detto di “no” al desiderio di un uomo che non sa padroneggiare il suo desiderio, un uomo spossessato della sua libertà e della sua autostima da un desiderio di cui è totalmente schiavo.

Al centro del discorso dovrebbe esserci non l’inclinazione del maschio alla violenza vista come una caratteristica intrinseca al maschile, ma la questione del desiderio incontrollabile: della passione, appunto. Che il tema sia la passione lo si dovrebbe comprendere da almeno tre fatti: che i delitti per un “no”, per un abbandono, per un rifiuto a tornare insieme avvengono anche fra persone di orientamento omosessuale; che in alcuni rari casi ci sono donne che uccidono un uomo; e soprattutto che in un gran numero di casi – per i quali non abbiamo ancora dati statistici affidabili e ufficiali – l’uccisione della donna è seguita dal suicidio (o dal tentato suicidio) dell’uccisore uomo.

Maschicidi?

Il suicidio è un omicidio, e in questi casi è l’uccisione di un uomo, ma nessuno si azzarda a definirlo un “maschicidio”. L’uomo che ha ucciso una donna per un “no” si ucciderebbe “in quanto uomo”? Cioè dopo avere ucciso la donna perché non si sottomette come dovrebbe in quanto donna, ucciderebbe se stesso in quanto genere sessuale che non accetta il rifiuto alla richiesta di sottomissione? Evidentemente non è così: chi uccide, uccide trascinato dall’odio e dalla rabbia, passioni tremende.

Ci vogliono tanto odio e tanta rabbia per uccidere la donna che si è amata (o che si è creduto di amare: c’è tanta immaturità in giro), ci vuole altrettanto odio e rabbia per uccidere se stessi. E che cosa si odia e si uccide in se stessi, dopo il delitto passionale? Non l’archetipo maschile descritto dal femminismo – possessivo, incapace di accettare la libertà della donna e di concepire il rapporto con lei in termini che non siano la subalternità dell’una all’altro – ma esattamente l’opposto: l’incapacità di essere maschi proprio nel momento in cui viene messa alla prova la caratteristica decisiva della maschilità.

Questa caratteristica è la capacità di trascendenza, la capacità cioè di non cedere alle pulsioni, di accettare e rispettare la legge anche quando questa contraddice il nostro desiderio, di non ridurre mai il desiderio al possesso di un oggetto o di un rapporto, fosse anche il più gratificante di tutta la vita fino a quel momento.

Non tutto è permesso

Possiamo esplorare questa capacità attraverso due percorsi distinti: quello della psicanalisi e quello del rapporto con Dio. I due percorsi li troviamo sintetizzati nella letteratura.

Esempio. Nel romanzo a sfondo autobiografico di Albert Camus Il primo uomo a un certo punto Jacques Cormery, il protagonista del racconto – dovrebbe trattarsi del padre dell’autore – militare nei ranghi coloniali francesi nel Marocco del 1905, trova i cadaveri di due commilitoni trucidati mentre erano di guardia. Sono stati sgozzati e gli sono stati messi in bocca i loro attributi maschili mutilati. È la guerra, commentano gli altri del battaglione, pronti a rendere la pariglia agli autori del misfatto. No, obietta lui, nemmeno in guerra tutto è permesso: «Un homme, ça s’empeche!». Un uomo, un maschio in armi, questo non lo deve fare.

Il compito che viene dall’identità maschile è esattamente l’opposto della crudeltà selvaggia: non fare questo genere di cose, non lasciare via libera alle passioni, reprimere l’odio e la rabbia, far rispettare la legge che è nel cuore di ogni essere umano. Quando invece le fa, viene meno alla sua vocazione.

Maschile e femminile sfociano nella paternità e nella maternità. Per Freud il padre è colui che vieta il rapporto con la madre al figlio, ponendo quindi un divieto al godimento senza limite. In questa prospettiva, chi uccide la donna che dice di amare per mancata corrispondenza dimostrerebbe di non avere avuto un padre che gli abbia insegnato ciò che ne fa propriamente un adulto, cioè limitarsi e accettare i limiti. Dunque sarebbe carente di rapporto maschile, di educazione del maschile.

Femminicidio – suicidio

Ancora più interessante la prospettiva junghiana, soprattutto per quello che suggerisce sul rapporto femminicidio-suicidio. «Uccidere una donna è un delitto perpetrato nel mondo da parte di individui che sono incapaci di uccidere, ossia trasformare, quelle parti psichiche che li abitano», scrive lo psicoterapeuta junghiano Luca Urbano Blasetti. Per gli junghiani caratteristica del femminile è l’accoglienza del desiderio, del maschile è la capacità di castrazione.

Perché femminicidio e suicidio sarebbero legati? «Il suicida», scrive Blasetti, «agisce sul corpo concreto quello che richiede un’azione sull’immagine psichica. Qualcosa deve morire, qualcosa si deve trasformare nella psiche e questo qualcosa viene confuso con il corpo concretistico tralasciando quello che potremmo chiamare “corpo immaginale”. Ecco perché femminicidio e suicidio vanno a braccetto. Vanno in coppia perché, sia a livello individuale e collettivo, il femminicidio è la manifestazione del medesimo equivoco. Ma mentre nel suicidio la letteralizzazione avviene a carico del corpo dell’esecutore, nel femminicidio avviene a carico di un corpo di una donna altra dall’esecutore materiale. Si uccide la propria partner o si uccide la “femmina” poiché non si riesce a trasformare e uccidere il femminile nella psiche».

Anche per gli junghiani i “femminicidi” sono il prodotto di una carenza di maschile, non di un eccesso; sono una conseguenza della femminilizzazione psichica dei maschi: «Se un tempo ogni mio pensiero, emozione o bisogno doveva passare al vaglio della castrazione, oggi vive un’accoglienza incondizionata. Quella stessa accoglienza con cui, chi uccide una donna, si rapporta ai propri sentimenti aggressivi piuttosto che castrarli».

Le parole (travisate) di Arguello

Profonde, geniali, provocatorie, alle intuizioni della letteratura e della psicanalisi manca di salire un ultimo gradino per risultare convincenti agli occhi del maschio travolto dalla passione, al punto di farlo desistere dai suoi propositi femminicidi/suicidi. E questo passo è il rapporto con Dio.

Con parole semplici lo spiegò Kiko Arguello al Family Day del giugno 2015, in un intervento vergognosamente travisato dalla stampa laicista, che ebbe la spudoratezza di attribuirgli la convinzione che le donne sarebbero responsabili della propria morte violenta, perché abbandonandolo tolgono al maschio la sua ragione di vita.

Il fondatore del Cammino neocatecumenale disse esattamente il contrario. Spiegò che il femminicidio è conseguenza dell’errore dell’uomo: l’assolutizzazione del rapporto con la donna, che sostituisce il rapporto con Dio, l’unico vero Assoluto. Se si investe in una creatura il desiderio che può incontrare corrispondenza solo in Dio, i risultati possono essere disastrosi: la delusione genera odio verso la creatura desiderata e verso se stessi. Se a darti l’”essere” è una creatura anziché Dio, quando la creatura ti abbandona sprofondi nell’inferno e nella morte e diffondi inferno e morte: puoi arrivare a uccidere la creatura che ti ha deluso, i figli che hai avuto con lei e te stesso (oppure solo te stesso: quanti suicidi di amanti delusi).

La strada per estinguere i femminicidi

Il desiderio è veramente desiderio quando diventa passione. Ma se la passione sbaglia l’oggetto della sua dedizione assoluta, si aprono le porte della tragedia. Solo una passione più grande salva dall’inferno di una passione delusa. L’umana capacità di trascendenza, cioè di andare oltre le proprie pulsioni e il proprio bisogno di gratificazione, si attiva con successo solo se nel suo orizzonte appare un altro oggetto di desiderio, più appassionante. Questo oggetto è il rapporto con Dio.

Tutto ciò naturalmente non significa che il maschio che non crede in Dio o è agnostico finirà per uccidere o maltrattare seriamente la donna che eventualmente lo abbandoni: i percorsi della capacità di trascendenza sono infiniti. Significa invece che ai maschi tentati dalla disperazione omicida/suicida andrebbe offerta una mano che li tiri più su, e non una che li spinga in giù. La strada per estinguere i “femminicidi” non è quella di far vergognare i maschi di essere maschi. Ma quella di fare udire loro la Voce che li chiama più in alto: «Ascolta, Israele: non avrai altro Dio all’infuori di Me».

Foto Ansa

Tags: femminicidio
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