
I fan di Einaudi ci pensino due volte prima di espellere la Thatcher dal Pantheon liberale

La Lady di ferro è passata a miglior vita quattro anni fa. Dopo la prima, inevitabile, fiammata di giudizi polemici, panegirici estemporanei e disquisizioni stucchevoli sul se e sul quantum di liberalismo contenesse la sua azione di governo, ci saremmo aspettati riflessioni più ponderate e distaccate, nutrite di analisi fattuali e meno condizionate da slogan quali liberismo estremo, liberalismo temperato e simili, slogan che spesso fanno credere a chi li agita di essere esentato dal fornire ulteriori chiarificazioni.
«Sei un liberista!» oppure «sei un comunista!» e oplà il gioco è fatto; non ho certo bisogno di dimostrare perché, in quanto liberista, e quindi nell’opinione comune ovviamente estremo, o in quanto comunista, e quindi nella vulgata evidentemente stalinista, hai perciò torto; se sei quelle cose lì, hai ipso facto torto. Punto e basta.
Bene, vogliamo allora provarci noi, a proposito della Thatcher, a sviluppare, senza iattanza ma sine ira et studio, qualche considerazione, non finalizzata a verificare se il personaggio possa o meno essere inserito nel Pantheon liberale, ché dei Pantheon, dei numi tutelari e dei Padri della tradizionale liberale ci importa poco. Non vogliamo distribuire pagelle e patenti, ché d’altronde non ne abbiamo l’autorità.
Vorremmo soltanto iniziare a capire se la rosa, secondo alcuni, o la gramigna, secondo altri, spuntate e cresciute negli anni Ottanta a di là della Manica siano state un fatto eccezionale o meno. La politica e, ancor prima, l’universo intellettuale di Margaret Thatcher sono stati o no il frutto di una darwiniana mutazione casuale del tessuto genetico liberale, una crociana invasione degli Hyksos, degli inquilini abusivi del condominio liberale?
Certo, si potrebbe liquidare la faccenda ricordando come neanche il meno progressista dei liberali di casa nostra nel secondo Novecento, Giovanni Malagodi, amasse il premier britannico. Eppure fu proprio Malagodi a creare negli anni Sessanta a Roma la fondazione intitolata a Luigi Einaudi, e proprio mettendo a confronto Thatcher ed Einaudi la liquidazione del “thatcherismo” quale corpo estraneo alla storia del liberalismo europeo non ci sembra persuasiva.
Certo, non vogliamo stilare giudizi definitivi ma solo mettere in fila alcuni elementi.
«Punto critico nel programma di governo era il bilancio preventivo. La nostra impostazione generale era ben nota. Era necessario un fermo controllo del circolante per abbattere l’inflazione. Occorrevano tagli nella spesa pubblica e prestiti per alleviare il peso sul settore privato, che era il creatore della ricchezza»; così annotava la Thatcher nel 1993 nel suo Gli anni di Downing Street a proposito del piano di politica economica adottato agli inizi del suo primo mandato di governo (1979-1983).
Negli anni successivi, proseguiva l’ex primo ministro inglese, «la battaglia si sarebbe svolta su tre argomenti connessi l’uno all’altro: la politica monetaria, la spesa pubblica e la riforma sindacale». Nell’ottobre del 1979 al congresso del partito tenutosi a Blackpool aveva d’altronde detto a chiare lettere: «Noi prenderemo qualunque misura si renda necessaria per contenere l’aumento del circolante». E nell’autobiografia, la Thatcher chiarisce la filosofia di fondo che sorreggeva quell’indirizzo di politica economica (che si sarebbe tradotto nell’incremento del tasso d’interesse): «Noi cercavamo di assicurare una maggiore stabilità finanziaria, nella quale imprese e individui potessero operare con fiducia. Sapevamo che potevamo farlo solo controllando i fenomeni che il governo era in grado di controllare, ossia il circolante e il debito pubblico. Al contrario la maggior parte della pianificazione economica del dopoguerra cercava di controllare fenomeni come la produzione e l’occupazione, che alla fin fine il governo non poteva controllare, mediante una quantità di regolazioni sugli investimenti, sui salari e sui prezzi che distorcevano l’attività economica e minacciavano la libertà personale».
Quale era l’accusa mossa dai detrattori di tale impianto economico? Quella di «dogmatismo», lo ricorda la Thatcher stessa, che imponeva di ridurre l’inflazione «solo con un’energica stretta monetaria, […] comprimendo l’economia nel bel mezzo di una recessione», quando, invece, argomentava l’opposizione, occorreva sostenere keynesianamente la domanda finanziando la spesa pubblica in deficit.
Ebbene, quale fu la stella polare che guidò Einaudi nel secondo dopoguerra nella sua attività da governatore della Banca d’Italia e ministro del Bilancio? Giudicate inapplicabili le ricette keynesiane in quanto, secondo l’economista cuneese, in Italia non esisteva una capacità produttiva inutilizzata, Einaudi impegnò le sue energie nella battaglia antinflazionistica, procedendo nel corso del 1947 ad aumentare il tasso di sconto dal 4 al 5,5 per cento e a contrarre così il credito bancario. Avversari? Le sinistre e i sindacati. Lo scotto da pagare? Una iniziale impennata della disoccupazione, proprio come sarebbe accaduto nei primissimi anni Ottanta in Gran Bretagna.
Ma è ancora una volta sul terreno della Weltanschauung sostanziante le politiche economiche che è possibile rintracciare consonanze e affinità tra la statista d’oltremanica e il Nostro.
Il socialismo, sentenzia secca nel suo diario The Iron Lady, «aveva letteralmente demoralizzato comunità e famiglie, offrendo dipendenza dallo Stato in luogo dell’indipendenza e sottoponendo i valori tradizionali a prolungata derisione».
Nel nostro paese, osservava Einaudi nell’aprile 1948 sul Corriere della Sera in un articolo intitolato “La terza via sta nei piani?”, dove «i ceti professionali non dipendono dallo Stato, ma dal favore della clientela; dove gli agricoltori sono ancora re in casa propria e portano i propri prodotti al mercato e non sono costretti […] a consegnarli a prezzi fissati ad un padrone anonimo detto Stato; dove esistono ed esisteranno sempre, ove non siano aboliti per legge, artigiani e commercianti ed industriali piccoli e medi, non è possibile […] la tirannia […]. Vivono nelle nostre società milioni di uomini appartenenti a ceti indipendenti dal monopolista privato o dal leviatano statale. Questi ceti indipendenti sono ancora, per fortuna, la grandissima maggioranza del popolo italiano, come degli altri popoli di civiltà occidentale; ed in questi ceti indipendenti sta il presidio ultimo della libertà civile e politica».
Temiamo allora che se in casa liberale qualcuno oggi volesse mandare in soffitta il busto di Margaret, qualcun altro un domani potrebbe concludere che anche quello di Einaudi meriti lo stesso trattamento riservato alle innumerevoli statue di Lenin dopo il 1989. Simul stabunt simul cadent, come usa dire.
Luca Tedesco, autore di questo articolo, è professore associato in Storia contemporanea all’Università degli studi Roma Tre
Foto Ansa
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