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Basta violenza a Hong Kong, ma è il governo che getta benzina sul fuoco

Perché la governatrice Carrie Lam non fa nulla per fermare le proteste, anzi, le fomenta con il suo immobilismo ottuso? Forse tutto risponde a un piano della Cina

Leone Grotti
16/11/2019 - 2:00
Esteri
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L’hanno già detto e scritto in tanti e non a torto: la violenza non porterà ai manifestanti di Hong Kong niente di buono e non otterrà nulla. Nonostante le buone intenzioni della maggior parte dei giovani, e tenuto conto che si tratta di una risposta a inaccettabili violenze subite, gli atti di vandalismo non possono essere giustificati in alcun modo. Detto questo, è necessario allargare lo sguardo per capire perché la città autonoma è ormai paralizzata dal caos e porsi una domanda cruciale: perché il governo non fa nulla per fermare le proteste? Perché la governatrice Carrie Lam non si preoccupa minimamente del baratro verso il quale procede a passi spediti la sua città? Perché non si dimostra preoccupata dalla recessione che ha colpito Hong Kong, dalle università trasfigurate in campi di battaglia, dalle prime due vittime causate dagli scontri?

PROTESTE PACIFICHE IGNORATE

Quando il 16 giugno sono scese in piazza per protestare in modo assolutamente pacifico due milioni di persone, la più grande manifestazione della storia di Hong Kong, Carrie Lam avrebbe potuto ritirare la legge, nominare una commissione indipendente sulle violenze della polizia e tutto sarebbe finito. Invece non l’ha fatto, ha paragonato i giovani a bambini capricciosi da redarguire, si è dimostrata arrogante, ha versato qualche lacrima e ha tirato dritto. Lanciando un messaggio deleterio: le vostre proteste pacifiche non serviranno a niente.

Nei mesi successivi Carrie Lam avrebbe potuto prendere le distanze dagli editoriali del Quotidiano del popolo cinese, che definivano i manifestanti «nemici del popolo, merde di topo e scarafaggi». Ma non l’ha fatto. Poteva andare a trovare in ospedale il giovane colpito al petto da un proiettile sparato a bruciapelo da un agente, ma non l’ha fatto. Poteva andare a visitare almeno uno dei migliaia di feriti, ma non l’ha fatto. Poteva prendere le distanze dal poliziotto che ha dichiarato che avrebbe «stappato una bottiglia di champagne» per celebrare la morte del 22enne Chow Tsz-lok, ma non l’ha fatto. Poteva criticare l’arresto di tre parlamentari democratici che hanno protestato durante una sessione del Parlamento o la detenzione di alcuni candidati alle elezioni distrettuali del 24 novembre, ma non l’ha fatto. Ha sempre e solo reiterato, con sempre maggiore arroganza, che «le proteste e la violenza non serviranno a farci cambiare idea».

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SUBITO UNA COMMISSIONE INDIPENDENTE

È forse politica questa? Pechino insiste che la «pace e l’ordine devono essere ristabiliti», ma non sono i lanci di gas fumogeni, i cannoni ad acqua, gli spray urticanti, le manganellate in testa, i proiettili veri e di gomma sparati dalla polizia che potranno ottenere questo risultato. Se nessuno a Hong Kong e in tutto il mondo crede più a una singola parola che esce dalla bocca di Lam o degli altri rappresentanti del governo, è perché questi hanno perso la faccia. Hanno dimostrato di non avere a cuore Hong Kong e di non voler porre fine al caos.

Perché, come proposto ieri sul South China Morning Post da uno dei massimi esperti di Cina, Jerome Cohen, Carrie Lam non nomina una commissione davvero indipendente sulle violenze della polizia? Una commissione che stabilisca quali proteste sono «sommosse» e quali rappresentano invece legittima disobbedienza civile, che distingua tra legittima difesa dei poliziotti e violenza inaccettabile, che indaghi sui veri ordini arrivati alla polizia dal governo, una commissione che abbia fondi e potere per visionare documenti ed email, per interrogare i responsabili, una commissione credibile composta da membri autorevoli di tutte le fazioni in lotta tra loro.

CARRIE LAM PRIGIONIERA DI PECHINO

Una simile iniziativa avrebbe davvero il potere di «pacificare la popolazione e mitigare gli abusi». Perché Carrie Lam non lo fa? Perché non ferma le voci, che arrivano da giornali e membri del Parlamento, sul possibile rinvio delle elezioni distrettuali, l’unico sfogatoio legale dell’immensa rabbia che pervade le strade di Hong Kong?

Molti ritengono che Carrie Lam, dovendo obbedire ai diktat di Pechino, semplicemente non possa fare nulla e sia costretta all’immobilismo. Del resto, in un audio rubato da Reuters, la governatrice ha ammesso di dover «servire due padroni». E qual è l’obiettivo del padrone più forte, ovvero il Partito comunista cinese? Dopo le parole pronunciate il 14 novembre dal segretario del Partito Xi Jinping si può avanzare un’ipotesi.

IL PROGETTO DI XI JINPING

Parlando per la prima volta di Hong Kong da quando sono scoppiate le proteste di giugno, a Brasilia, durante un vertice dei Brics, ha affermato:

«Noi sosteniamo con decisione la polizia di Hong Kong, perché compia azioni di forza per imporre la legge, e sosteniamo i giudici perché puniscano secondo la legge coloro che hanno commesso violenti crimini. I continui, radicali e violenti crimini che stanno accadendo ad Hong Kong hanno calpestato profondamente lo stato di diritto di Hong Kong e l’ordine sociale, minacciando in modo severo la prosperità e la stabilità di Hong Kong, diventando una palese minaccia alla linea di fondo del [principio] un Paese, due sistemi».

Il modello pensato per Hong Kong dall’allora leader comunista Deng Xiaoping (Un paese, due sistemi) prevede 50 anni di autonomia per Hong Kong fino al 2047. La mini Costituzione prevedeva anche che la città autonoma sarebbe arrivata a governarsi con il suffragio universale. Cinque anni fa il regime comunista ha cambiato idea, tradendo le aspettative del popolo di Hong Kong, e rimangiandosi la promessa del suffragio universale.

IL GRANDE INCONTRO DI TEMPI

L’impressione è che la Cina abbia tutto l’interesse a far peggiorare le cose sempre di più, attraverso la colpevole cecità ed inerzia del governo di Hong Kong, fino a quando avrà il diritto di invocare l’attuazione degli articoli 14 e 18 della mini Costituzione. Il primo prevede che l’Esercito popolare di liberazione cinese possa intervenire nella città autonoma su richiesta del governo, il secondo che in caso di «stato di emergenza» le leggi della Cina subentrino a quelle della Regione amministrativa speciale.

Forse Pechino ha deciso che è ora di farla finita con la farsa “Un paese, due sistemi” e che è giunto il momento di riprendersi Hong Kong anzitempo? Se è così, il miglior modo per farlo è fomentare la rabbia della popolazione attraverso l’immobilismo e l’assenza di risposte a legittime richieste da parte del governo fino a quando la situazione non sarà completamente degenerata. Già due persone sono morte a causa degli scontri, altre hanno rischiato la vita, altre ancora sono in condizioni critiche. Se il caos persisterà e le violenze aumenteranno ancora, l’unico a stappare bottiglie di champagne sarà il regime comunista.

È per capire tutti i risvolti di queste proteste che Tempi ha organizzato il 29 novembre a Milano (Pime, via Mosè Bianchi 94, ore 21) un grande incontro: “La libertà è la mia patria. Da Piazza Tienanmen a Hong Kong”. Oltre al missionario del Pime a Hong Kong dal 1991 Gianni Criveller, parteciperà Albert Ho Chun-yan, avvocato, ex presidente del Partito democratico di Hong Kong, direttore del Museo 4 giugno e presidente dell’Alleanza di Hong Kong.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

Tags: Cinahong kongproteste hong kong
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