
«Ho creduto nei khmer rossi»
«Mi guardi, ho l’aria di un selvaggio? Io ho
la coscienza tranquilla»
Saloth Sâr, meglio conosciuto come Pol Pot, 15 aprile 1998
Quello che resta del popolo cambogiano vive oggi faticosamente immerso nella stessa melma in cui è stato gettato ventinove anni fa. Non si è mai seccato il fango in cui nel 1975 i khmer rossi hanno immobilizzato e seppellito la vita in Cambogia dopo aver sterminato 2 milioni di persone, un terzo dell’intera popolazione. E ciò grazie anche all’impunità che sono riusciti ad assicurarsi i carnefici di ieri, che oggi dicono di avere “la coscienza pulita” e vivono liberi e dimentichi di tutto il male inflitto alle loro vittime.
In effetti, benché fosse stato sconfitto e avesse dovuto abbandonare il potere fin dal gennaio 1979, Pol Pot è morto nel 1998, di malattia, nel suo letto, a casa sua, nel suo quartier generale nella foresta del nord-ovest della Cambogia. In effetti non è mai stato istituito alcun tribunale che avesse la volontà e l’autorità per dire una parola definitiva sulla “Kampuchea democratica”. In effetti la memoria dei cambogiani è intrappolata in una vischiosa tela d’ipocrisia in cui gli sterminatori complici di Pol Pot non solo non sono ancora stati portati in giudizio per i crimini commessi, ma addirittura oggi si ergono a paladini della democrazia e alcuni di loro occupano tuttora posizioni di potere. Nuon Chea, ex gerarca di spicco del regime khmer, vive a Pailin e viaggia tranquillamente all’estero; a Pailin abita anche Khieu Samphan, che, da ex presidente della Kampuchea, recentemente (dopo aver assistito alla proiezione del documentario del regista cambogiano Rithy Panh “S21: The Khmer Rouge Killing Machine”) si è detto «meravigliato del perché i leader hanno ucciso questa gente», ma continua a negare il suo coinvolgimento nel genocidio; Ieng Sary, ex ministro degli esteri del Grunk (Governo reale di unione nazionale della Kampuchea), possiede una villa lussuosa nella capitale e dal 1996 gode di amnistia. Insomma, quelli che ammazzavano i poveracci anche solo per aver rubato una patata “del popolo”, adesso vanno dicendo che è ora di dimenticare il passato, “nel nome della pace e della riconciliazione nazionale”. Giusto. Il problema è che coloro che oggi parlano “nel nome della pace e della riconciliazione nazionale” sono gli stessi che nel 1975 entrarono a Phnom Penh, ne deportarono per intero la popolazione, affamarono, torturarono e trucidarono 2 milioni di persone, proprio… “nel nome della pace e della riconciliazione nazionale”. È per questo che Ong Thong Hœung ha deciso di pubblicare solo oggi, anno 2004, il suo libro, Ho creduto nei khmer rossi (Guerini e associati). «I compagni che sono morti non meritavano questa fine. E io non meritavo di aver salva la vita».
Ho creduto nei khmer rossi è la storia di un uomo che dall’Europa dove era andato a studiare e aveva abbracciato l’utopia comunista, torna in patria nei giorni della “liberazione”. Un uomo che giunto nella Phnom Penh liberata col sogno di partecipare finalmente all’edificazione di una società socialista ed emancipata, viene internato con sua moglie in un “campo di rieducazione”, dove riesce miracolosamente a sopravvivere nonostante le torture e dove, in un villaggio trasformato in lager, nasce la sua prima figlia. Oggi Ong Thong Hœung vive in Belgio, dove Tempi lo ha raggiunto telefonicamente.
Monsieur Hœung, cosa resta della tremenda lezione cambogiana? «Restano i carnefici, rimasti impuniti. Resta la terribile assenza di memoria che mi ha costretto a mettere per iscritto quello che ho visto e vissuto sulla mia pelle dell’inaudita violenza dell’utopia. Resta l’incredibile – almeno per quelli che come me ne hanno conosciuto il suo esito tragico – ideologia terzomondista che vedo ancora molto diffusa in Occidente, o perlomeno nell’Occidente che conosco, cioè l’Europa». In effetti, vi è più di un’analogia tra gli attuali movimenti pacifisti e anti-imperialisti che protestano contro l’intervento occidentale in Irak e quei movimenti pacifisti e comunisti-internazionalisti che negli anni Settanta protestavano contro l’intervento americano in Indocina. Come all’epoca le piazze europee erano attraversate dal popolo comunista e arcobaleno che gridava «meglio rossi che morti», così oggi il pacifismo sembra unito dalla protesta sull’intervento alleato in Medio Oriente e dal trasferimento di ogni colpa sull’Occidente. Come spiega questa cecità, questa volontà di non guardare in faccia la realtà? «Non si spiega se non con la propaganda ideologica – dice Ong Thong Hœung – e comunque è davvero impressionante questa attitudine occidentale al senso di colpa. Ma l’Occidente non è colpevole! Al contrario. L’Occidente è democrazia, libertà, diritti umani! Un modello di cui il mondo ha bisogno. Consideri l’Asia, gli unici regimi che funzionano e che resistono sono quelli a democrazia liberale, penso al Giappone, a Singapore, alla Corea del Sud, a Taiwan. Dove invece è passato il socialismo, ci sono ancora solo macerie, povertà, disgregazione sociale. Anch’io sono rimasto colpito dalla reazione agli attentati di Madrid. Come si fa a gridare sulle piazze “Aznar assassino”? Ma è una follia! Oggi è il fondamentalismo islamico il nuovo totalitarismo». Che verrebbe arginato se l’Occidente si ritirasse dall’Irak? «Ritirarsi dall’Irak? Sarebbe un catastrofe – dice lo scrittore cambogiano – piuttosto bisogna avere ben presente che il Medio Oriente ha bisogno di trovare la strada verso la democrazia e che l’islam deve essere aiutato a mettersi in discussione. Come il cristianesimo ha avuto una sua evoluzione, così bisogna insistere perché l’islam si confronti con la modernità e trovi anch’esso la strada dei diritti umani e della democrazia. No, non condivido affatto la linea del pacifismo angelico che è un alibi per il potere totalitario. Mi spiace, io sono per la pace, ma il pacifismo in Europa è uguale al terzomondismo. E ribadisco: chi dice che l’Occidente è colpevole non rende un buon servizio alla pace, ma a quanti nel mondo calpestano la libertà, la democrazia e i diritti umani. Dico ai pacifisti e ai terzomondisti: andate in Indocina, andate in Laos, in Vietnam, in Cambogia, e vedete cosa ha prodotto l’odio antioccidentale. Però lei è un italiano e allora mi lasci dire: contrariamente a quello che leggo su tanta stampa europea io penso che Berlusconi sia un grande e coraggioso leader democratico dell’Occidente».
Ma chi è questo sopravvissuto di un’utopia che nasce e viene coltivata in Occidente e trova il suo campo di sperimentazione e di morte in Oriente? Come tanti cambogiani in quegli anni, Ong Thong Hœung, studia a Parigi, e come tanti suoi concittadini è un attivista dei movimenti sorti dal ’68, che inneggiano al socialismo e alla guerriglia indocinese contro l’aggressione americana. E come tanti, per realizzare gli obiettivi della resistenza rivoluzionaria, entra nel Funk (Fronte unito nazionale della Kampuchea), dove incontra e frequenta i futuri boia del suo popolo. Era da dieci anni in Francia quando, il 17 aprile del 1975, i khmer rossi liberano Phnom Penh, convincendo moltissimi cambogiani a rientrare in patria per servire il loro paese, per ricostruirlo. Essi avevano atteso a lungo il giorno della rivoluzione, in cui finalmente la Cambogia sarebbe stata di nuovo libera dagli invasori americani. Così, nel luglio del 1976, anche Ong parte da Parigi. In volo già assapora il ritono al paradiso perduto molti anni prima. Non può nemmeno immaginare che a Phnom Penh, invece, lo aspetta l’inferno.
«Come avremmo potuto indovinare la sorte dei nostri amici rientrati per servire il paese? Al loro ritorno, sono stati tutti rinchiusi in differenti campi a Phnom Penh o nei dintorni. Fino al 1979 non sapremo niente di quello che succedeva nel resto del paese. Non avremo la minima idea della vita fuori dai campi. Avremo una visione d’insieme della realtà del regime dei khmer rossi solo dopo la sua caduta». Per due anni e mezzo Ong, come la stragrande maggioranza degli “intellettuali” rientrati dall’Europa, è rimasto rinchiuso nei campi di rieducazione, dove fu costretto a “ricostruirsi” per abbandonare individualismo, borghesismo, dignità, per imparare a fare “come il popolo”. Nessuno dei rimpatriati ebbe il tempo nemmeno di far visita a ciò che rimaneva della propria famiglia. Nessuno poté tornare nei luoghi che desiderava rivedere e che adesso erano diventati dormitori, camere di tortura, macerie. Ai cambogiani rientrati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, invece, il governo della Kampuchea democratica riservava un trattamento più efficace: furono quasi tutti giustiziati all’arrivo con l’accusa di essere agenti della Cia o del Kgb.
Nei campi, gli “intellettuali” venivano educati ad accettare che l’Angkar, il partito, fosse l’unica entità in grado di prendere decisioni, programmare, avere una volontà o un’opinione, pensare, desiderare. A questo scopo, ogni momento della vita doveva essere politicizzato. Le persone, gli amici, i parenti, prima ancora di essere tali, dovevano diventare compagni oppure traditori. Perché, per l’Angkar, prima bisogna essere rossi, poi uomini. Tra chi era riuscito a farsi giudicare “del popolo” dal partito, «qualcuno provava compassione per noi. Ma cosa potevano fare? Se qualcuno avesse osato difenderci sarebbe stato designato come un elemento indesiderabile, frutto della cattiva classe sociale, marcio, di destra, appartenente al Funk». In questo modo il regime creava la nuova società di cui nutrirsi: chi non riusciva a fare “come il popolo” veniva chiamato “a compiere il suo dovere per l’Angkar”, e nessuno lo rivedeva più. «Poco a poco, parliamo la stessa lingua, con le stesse parole e lo stesso stile della radio. L’identità di vedute sui problemi politici è ogni giorno più totale. Mai un punto di disaccordo. Al lavoro, ognuno segue l’altro. Tuttavia, si deve partire dal principio che bisogna essere il più “perfetti” possibile. Dobbiamo tirar fuori i nostri difetti per respingerli. Se no, gli altri diranno che non siamo sinceri. La riunione si incaricherà di eliminare tutti i pensieri reazionari, i tradimenti».
La disintegrazione dell’umano nei campi di rieducazione, portata avanti scientificamente durante le sedute di critica/autocritica pubblica, era resa ancora più insopportabile dal lavoro, duro quanto inutile, e dalla fame. «Nessuno conosce più nessuno, ormai. Non osiamo più guardarci in faccia. Ognuno è un potenziale nemico, un traditore da abbattere. Secondo Marx ed Engels, lavorando per modificare la natura, l’uomo trasforma il suo essere. Raccogliere merda, demolire una chiesa, zappare la terra, distruggere case: abbiamo lavorato con le nostre mani lottando contro quello che pensavano le nostre teste. Facciamo ciò che ci chiede l’Angkar, come bestie da soma. Eccoci trasformati in animali. Così abbiamo corretto la nostra natura».
Solo nel 1979, dopo l’invasione della Cambogia da parte dei vietnamiti, Ong poté sapere quale destino era toccato a quel popolo che l’Angkar lo aveva costretto ad invidiare. A partire dal 1975, la gente era stata allontanata a forza dalle proprie abitazioni. I villaggi e le città erano state programmaticamente svuotati, perché l’Angkar aveva stabilito che la popolazione si dovesse dedicare solo all’agricoltura e all’industria. Bisognava raggiungere la piena autarchia economica del paese. Chi non poteva camminare era stato eliminato durante la deportazione. Alla stessa sorte erano andati incontro i sospetti antirivoluzionari. La fame aveva ucciso centinaia di persone ogni giorno. Un bilancio allucinante. «Faccio un conto: due terzi dei miei parenti sono morti».
È un diario tremendo il libro di Ong Thong Hœung, dove sembra non esistere scampo alla ferocia di cui l’uomo è capace. Confessa le colpe per cui non ha saputo sottrarre sua moglie, i suoi amici, i suoi compagni di università, i suoi parenti alla bestialità dell’Angkar. Ho creduto ai khmer rossi è il lungo racconto di quanti, meno di trent’anni fa, come insetti attorno a una lampada, «incoscienti, si lasciano attirare dalla luce e muoiono a centinaia».
«Ma chi erano veramente i Khmer rossi? “Assassini sanguinari, accecati dall’ideologia marxista-leninista”, dicevano i diplomatici americani e gli agenti della Cia… Ma noi non ci facevamo influenzare… Ricordo benissimo di aver girato in mezzo a quelle decine di cadaveri, sgozzati, impalati, maciullati, cercando di convincermi che non potevano essere stati uccisi dai guerriglieri, che magari quella gente era rimasta vittima dei bombardamenti americani e poi era stata messa lì, “usata”, per così dire, in modo da farci credere alla storia del massacro comunista» (Tiziano Terzani, “Pol Pot, tu non mi piaci più”, la Repubblica, 29 marzo 1985)
«Tema del numero di ieri di AZ era la situazione in Cambogia… Si sono così accavallate cifre pazzesche, “testimonianze” unilaterali su pretesi massacri, esecuzioni sommarie, ecc… In realtà è apparso evidente lo scopo propagandistico e la volontà terroristica della trasmissione, che ha dimostrato ancora una volta lo sfacciato uso di parte che la Dc e i suoi servitorelli televisivi continuano a fare del maggiore mezzo di comunicazione di massa esistente nel nostro Paese» (“Cambogia in chiave dc”, l’Unità, 13 giugno 1976)
«È attorno a questi profughi che si è svolta e si svolge la grande operazione della quale si parlava… Missionari che avevano servito più Lon Nol che la causa del Vangelo durante la guerra, ed erano poi fuggiti dal paese, e avventurieri che avevano diretto i servizi di propaganda anticomunista dello stesso Lon Nol e si sono trasformati in giornalisti a tempo più o meno pieno… Le prime “interviste” con i rifugiati sono state organizzate da questi elementi» (Emilio Sarzi Amadè, “Cambogia:
la verità difficile”, l’Unità, 29 marzo 1977)
«A Bangkok, come è stato scritto recentemente sul nostro giornale, esiste una vera e propria centrale che fabbrica, a volte dal nulla, a volte gonfiando ed esagerando testimonianze dei profughi, notizie di massacri, deportazioni in massa, fame ed epidemie. Si tratta di dimostrare che il “bagno di sangue” che Ford aveva previsto per il Vietnam, sta avvenendo comunque» (“Rassegna internazionale. I due anni della Cambogia”, l’Unità, 21 aprile 1977)
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