
Haiti. Il machete e la gloria

Tratto dal numero di novembre di Tempi.
Haiti, dicembre 2018. La testa schiacciata sul pavimento scricchiolante di passi, le ossa della schiena tenute a bada dalle mitragliatrici, le pupille aperte come il nero corridoio della notte che aveva condotto quegli uomini armati fino alla loro camera da letto. Quando suor Marcella Catozza vide a terra i corpuscoli tremanti delle bambine, capì che la fragile tregua che aveva risparmiato la casa d’accoglienza Kay Pe’ Giuss dalla furia senza nome che stava infuocando l’immensa baraccopoli di Waf Jeremie, alla periferia di Port au Prince, si era frantumata: «Era il terzo attacco. La prima sera avevano cercato di rubarci il generatore, ma erano in pochi. La sera dopo sono tornati in 35, 40, armati fino ai denti. Ci hanno portato via fino all’ultima scatola di fagioli. La terza sera sono entrati nella casa delle bambine per rubare tutti i letti, i materassi. Non avevamo più niente».
Quella notte suor Marcella si era fatta largo tra i pianti, le armi e la paura che si respirava nell’aria. «Sono quattordici anni che sono qui a crescere i vostri figli, perché razziare ora la casa dei bambini?» aveva chiesto al gangster che aveva il controllo del quartiere. «Perché – le aveva risposto lui, gli occhi che riflettevano la rabbia di una vita – ora non ci siamo più solo noi. Questa è Haiti». “Questa è Haiti”, come la didascalia a corredo del video ricevuto da suor Marcella il giorno in cui gli uomini di una banda armata avevano rapito il fratello di un capobanda rivale: lo avevano arso vivo e se l’erano mangiato. Poi avevano filmato l’orrido pasto e diffuso il video: «Questa è Haiti».
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Casa Lelia, ottobre 2019. «Io ci piace il sole!», esclama Jesimel, 8 anni, stiracchiandosi sul terrazzo di Casa Lelia, dove un’alba scintillante inonda la terra morbida delle colline di Assisi. In pochi minuti sotto il cielo scarlatto risuona lo scalpiccio dei piedi scalzi degli altri bambini che come ladruncoli in un frutteto corrono alla colazione e poi via nelle scuole dei paesi circostanti. In cucina, il disegno di un grande aereo che minaccia di tornare ad Haiti con a bordo i bambini più turbolenti della settimana, «il nome di Ruzzolo è lì fisso da tre mesi», sghignazzano i bambini indicando Roodson, sei anni e un talento per i guai. È il più piccino dei 23 bambini portati da suor Marcella in Umbria, per studiare, sì, ma soprattutto per cominciare a dire “io”, rabberciare l’umano.
«Haiti è in preda al nulla, migliaia di persone invadono le piazze affamate» spiega a Tempi suor Marcella lavando enormi grappoli d’uva per il pranzo, «questi bambini si portano dentro fin dalla nascita la perdita orrenda dell’umano. Waf Jeremie è sorta sulla discarica comunale, gli “haitiani bene” non ci mettono mai piede e non osano entrarci neppure i Caschi blu, l’Unicef, le organizzazioni governative e le altre grandi ong. Chi nasce a Waf Jeremie non esiste, nasce nell’immondizia, tra i topi e le formiche, messo al mondo da uomini e donne ridotti a nulla dalle feroci dittature di Jean Bertrand Aristide e Jean Claude Duvalier e dai loro squadroni armati. Sono i figli di una tragedia che non ha a che fare solo con la guerra, la fame, il terremoto, ma con la natura stessa dell’umanità».
Da un anno la rivolta anti-governativa contro il presidente Jovenel Moïse sta paralizzando un paese da sempre ostaggio della connivenza tra Stato e banditismo. Ben conosciute dalle autorità del governo, le bande armate si combattono senza pietà per il controllo del mercato dove transita il 15 per cento dei traffici illegali verso gli Stati Uniti, taglieggiando i mercanti, innalzando barricate. Centinaia di persone sono già morte in questa lotta armata, sfruttata ultimamente da uomini politici. Le scuole sono chiuse, non c’è elettricità, non c’è carburante, non c’è lavoro, non ci sono medicine, negli ospedali si muore di Aids e tubercolosi, nelle bidonville ci si prostituisce e si ammazza per una tanica di acqua pulita. Perfino il Best Western di Port-au-Prince ha chiuso i battenti. «Tutti mi dicevano: fai parte della fraternità francescana missionaria di Busto Arsizio, porta i bambini a Varese, in Lombardia, lì hai tanti amici. Ma ci voleva una terra eclatante come questa, abbracciata dalla bellezza e dalla santità di Francesco e Chiara perché anche un bambino capisse: “Io sono fatto per questo. Io non sono fatto per la discarica”».
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Haiti, novembre 2018. Da due giorni mancava anche l’acqua potabile. Le notizie portate dal giovane con la faccia aperta in due da un machete, che si era trascinato fino alla missione di suor Marcella per farsi ricucire, erano spaventose: baracche incendiate con le famiglie dentro, persone giustiziate in mezzo alla strada, rapimenti e stupri. La missione di Vilaj Italien, dove suor Marcella stava prendendosi cura di 150 piccoli orfani, tra cui 32 disabili gravi, e 350 bambini della scuola materna, era completamente isolata e immersa nell’oscurità. La strada, l’unica che anche oggi collega la capitale all’istmo sul mare dove sorge la missione, attraversando la baraccopoli, era stata interrotta delle barricate di copertoni infuocati che non permettevano il passaggio di auto o moto.
«Persino l’unità di crisi italiana, avvertita dagli amici, dopo avermi messo in contatto con l’ambasciata di Panama e con il console ad Haiti, non poteva fare niente per noi. Una suora di una missione vicina cercò di inviarci dell’acqua caricandola sulle canoe di alcuni pescatori, ma vennero scoperti subito dai banditi. I bambini non potevano mangiare, bere, potevamo solo aspettare». Finché un missionario americano riuscì a caricare un camion d’acqua e raggiungere la missione pagando il pizzo ad ogni singolo posto di blocco.
«Fammeli guardare come li guardi Tu, altrimenti io spacco la testa a qualcuno» pregava suor Marcella nei giorni seguenti, rammendando ferite, centellinando i pasti. Classe 1963, formazione medica, sette anni in Albania, dove nel 1992 aveva fondato la missione francescana di Babice, responsabile del campo profughi kossovari di Valona, cinque anni tra i favelados dell’Amazzonia, l’avevano addestrata al riconoscere l’invasione atroce e sublime del buon Dio nelle situazioni più misere e grottesche.
Ma Haiti era una bestia dura, miserabile e disperata, lo era stata fin dal primo giorno. Waf Jeremie era un quartiere completamente chiuso ai bianchi. Suor Marcella era stata inviata lì dal vescovo Joseph Serge Miot nel 2000 («Ma cosa faremo, cosa?», gli aveva chiesto sconvolta dopo una prima visita, «porterete Cristo e la Chiesa», le aveva risposto) e aveva capito subito la differenza tra il “fare” ed “essere presenza” tra quegli esseri che parevano privi di storia, privi di una vita futura immaginabile, una presenza avrebbe scatenato l’operosità.
Per tre mesi suor Marcella e l’amica suor Cristina avevano bivaccato sotto l’impenetrabile barricata, chiacchierando con i ragazzi di guardia, cercando un rapporto con loro. Poi, un giorno, un tremendo tifone sommerse la baraccopoli e sei bambini furono inghiottiti dal fango e dall’immondizia. «Aiutatemi a ritrovare il mio figlio» urlò loro una donna disperata: fu quel grido ad aprire un varco tra i copertoni, le religiose vennero fatte passare e iniziarono a scavare nella melma, il muro era stato abbattuto.
Suor Marcella riuscì ad affittare un vecchio deposito di carbone abbandonato, trasformandolo in ambulatorio pediatrico, suor Cristina arrangiò una scuoletta per bambini. Ma il giorno dell’apertura trovarono dodici piccolini morti fuori dall’uscio: avevano aspettato tutta la notte per farsi visitare, i loro corpicini ridotti a mucchi di ossa dipinte di nero erano stati stroncati dalla fame.
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Casa Lelia, ottobre 2019. Chico ha preso dieci in italiano, dice che tornerà ad Haiti per fare l’agronomo e il prete. Richelo invece sogna di fare l’ingegnere e costruire una casa come Dio comanda per sua madre. Non sono desideri traballanti dell’età, ma risposte radiose alle domande che i bambini di Haiti hanno scoperto di custodire nel tabernacolo del loro cuore.
«Non è facile per loro. Sono arrivati qui per un campo scuola estivo di tre mesi, ora grazie a una dirigente scolastica della zona che non ha avuto paura di affrontare i problemi dati dalla loro situazione (sono orfani, parlano il creolo, qualcuno è sieropositivo, ndr) e ai volontari che ogni giorno li aiutano a studiare, i ragazzi siedono accanto a compagni italiani nelle scuole dei paesi qui intorno. Devo trovare il modo di regolarizzare i loro permessi e per farlo non posso tornare ad Haiti, altrimenti risulterebbero minori non accompagnati e me li porterebbero in un centro di accoglienza. Ma sull’isola ho lasciato altri 130 piccoli e le notizie che arrivano dal paese sono sempre più allarmanti».
«Nessuno può uscire. Siamo chiusi a chiave nelle nostre case. Tutte le strade sono bloccate. Anche in caso di emergenza, le ambulanze non possono muoversi. Non abbiamo carburante. I mercati non funzionano. Le scuole sono state chiuse in tutto il paese», è il drammatico appello lanciato da Jean Désinord, vescovo di Hinche. Anche la Conferenza episcopale di Haiti è scesa in piazza, promuovendo una marcia pacifica per chiedere la risoluzione della crisi.
Ad Assisi intanto si fa come monsignor Luigi Giussani aveva insegnato a suor Marcella: si guarda oltre la crisi, si guarda “fino a quel punto”: «Il ponte di luce sul mare con la Via Lattea nessuno di voi lo ha mai visto, lo ha mai osservato, lo ha mai scoperto, né lo scoprirebbe mai se non facesse attenzione alle cose come l’amore al destino, che è Cristo, rende capaci di fare», scriveva Giussani in Si può vivere così? Uno strano approccio all’esistenza cristiana. Lo stesso approccio fatto proprio da suor Marcella nel 2015 quando, con alcuni amici, dà vita alla Fondazione Via Lattea per stabilizzare la sua opera missionaria.
Quando firma per l’acquisto di Casa Lelia, un bellissimo casolare in pietra a Cannara, ai piedi di Assisi, per ospitare i piccoli, le mancano 300 mila euro e ha una settimana di tempo per trovarli. E in quella settimana la chiama un amico, che non si fa vivo da anni, e le dona la somma necessaria. Anche per i voli la aiutano gli amici. Uno di loro, il più amato dai bambini, Massimiliano “Max” Laudadio, l’ex Iena ed energico inviato di Striscia la notizia, non molla suor Marcella da quando, accettando di condurre per Tv2000 una serie di docufilm dalle periferie del mondo, si è trovato a suturare ferite, accompagnare i bambini in ospedale, discutere con i banditi (ma questa è un’altra storia, una delle tante di chi nella missione di suor Marcella tra sangue e nello sterco di Haiti ha visto fiorire la grazia come un semplice fiore).
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Haiti, gennaio 2010. Si aggirava tra le strade piene di cadaveri, a 24 ore dal terremoto si sentivano ancore le urla della gente intrappolata sotto le macerie. Non c’erano ruspe, era morto il vescovo, morte 242 suore; l’ambulatorio, che era diventato la roccaforte della sua battaglia contro la denutrizione, meta di moltissime donne e bambini, era stato distrutto, come la cattedrale. Suor Marcella era appena rientrata ad Haiti dopo aver assistito alla morte della madre in Italia. Era sola (suor Cristina da tempo era rientrata in patria per motivi di salute), sola nella devastazione lasciata da 54 secondi di sisma che il giorno prima, 12 gennaio 2010, aveva provocato oltre 200 mila morti e 300 mila feriti. Ma aveva degli amici: grazie a una ong italiana rimise in piedi la clinica ribattezzandola Sen Franswa, con i soldi inviati dall’Italia edificò le casette del Vilaj Italien in muratura.
Un anno dopo, l’anno dell’uragano Sandy e del colera, era pronta anche la scuola Ren del Lape per i bambini della baraccopoli. Ma il cuore di Haiti batteva allora al prezzo terribile dei suoi orfani. Cassandra aveva qualche settimana quando suor Marcella la trovò avvinghiata al cadavere in putrefazione della mamma in una tendopoli di terremotati. Formiche uscivano dal suo corpicino pieno di piaghe inesplorabili mentre suor Marcella la avvolgeva nel saio e la portava a casa, quella che sarebbe diventata una casa d’accoglienza a tutti gli effetti, la Kay Pè Giuss, intitolata a don Giussani.
Non aveva mai pensato a un orfanotrofio prima di allora. Quando Shnaider era stato abbandonato a soli due anni nella sala d’aspetto della clinica, e la polizia le aveva intimato di «mollarlo per strada», suor Marcella l’aveva preso con sè. Così come la piccola abbandonata sulla panca della chiesa. Poi i bambini erano aumentati, bimbi orfani, qualcuno con un solo genitore. Come Richelo e sua sorella Richena: l’ospedale si era rifiutato di occuparsi della gamba ferita del loro papà, troppo povero per permettersi le cure; la gamba era andata in cancrena, gli era stata amputata, e l’uomo era morto di setticemia. La mamma si era messa a vendere oggetti raccolti nell’immondezzaio chiudendo a chiave nella baracca di lamiera quello che aveva di più prezioso: i suoi quattro bambini. Suor Marcella li aveva trovati muti al buio e denutriti e aveva deciso di aiutarli. Come aveva aiutato quella donna disperata che le aveva affidato i suoi gemelli, decisa a ritrovare il marito disperso nel terremoto. Ed erano tornati, quattro mesi dopo, insieme, a riprendere i bambini.
Non era stato facile, costruire l’orfanotrofio. Le gang diedero via a un’escalation di minacce culminate nell’assassinio di Lucien, giovane collaboratore della suora a cui venne scaricato addosso un intero caricatore. Marcella non si arrese mai alle regole e alle pallottole delle bande armate. Nel 2013 la sua casa ospitava già 78 bimbi, orfani, sieropositivi, bimbi infettati dall’Aids giocando a fare i palloncini con i preservativi distribuiti a pioggia dal governo per fermare l’epidemia e abbandonati in strada dopo l’uso, piccoli malnutriti, malati di tubercolosi, con deficit motori e psichici. Come la piccola disabile abbandonata come un topolino di fogna e rinata sulla carrozzella alla Kay Pè Giuss. Poi, un giorno, il governo decise di erogare un sussidio alle famiglie che non avrebbero abbandonato i figli handicappati: i suoi genitori si presentarono con una sedicente zia all’orfanotrofio reclamandola, e se ne andarono, in tre sulla sella, la bambina legata al manubrio della moto.
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Casa Lelia, ottobre 2019 (e oltre). Ad Assisi è l’ora dei compiti, i bimbi affollano i tavoli, indossano i vestiti donati e raccolti dai tanti amici, dai maestri e genitori dei compagni di classe che ogni week end scaricano davanti a Casa Lelia casse di viveri, indumenti, materiale didattico. Non si sentono spari, solo il ronzare delle api. «Haiti si trova a un’ora di volo da Miami, è la sorella di Santo Domingo, il paradiso delle agenzie turistiche, delle feste in spiaggia e del merengue. Conta dieci milioni di abitanti, gli stessi della regione Lombardia. Non si trova ai margini del creato o nel cuore dell’Africa nera. È chiaro che nessuno ha interesse ad ascoltare il suo grido mentre sprofonda nella miseria e nella droga che hanno messo in ginocchio la razza umana. Ecco perché Assisi, la terra di san Francesco, terra di bellezza e santità», spiega suor Marcella osservando i bambini finalmente al sicuro, lontani da quel paese che ha iniziato a dare la caccia anche ai religiosi.
Come suor Isa Sola, misteriosamente assassinata con un colpo alla nuca durante quello che le autorità hanno liquidato come un tentativo di rapina. «Mi sono chiesta tante volte come è possibile voler bene a uomini e donne che non desiderano nulla, abitati da deserto e vuoto, dall’assenza di significato, poveracci che non sapendo di che vivere vivono d’istinto, che tradiscono continuamente ogni mano tesa verso di loro, che vedono un bianco verde come un dollaro. Eppure Cristo li ha amati così tanto da dare la vita per ciascuno di loro. Ecco perché bisogna incarnare l’educazione di questi bambini, farli sentire amati come i più amati sulla faccia della terra, rimettere in cammino il loro io, perché la mancanza dell’io rende incapaci di protagonismo».
Solo così potranno «restituire lo sguardo di Cristo alla loro gente, ridestare un cuore vivo in chi vive sotto una campana di vetro sudicio. Ma per farlo occorre guardare Haiti oltre quel vetro, oltre le barricate, oltre al fondo delle latrine e delle lamiere, guardare ciascun miserabile “fino a quel punto”, come solo l’amore al destino rende capaci di fare». Perché a quel punto “questa” – la discarica, il cannibalismo, le mitragliatrici – non è più “Haiti”. A quel punto Haiti è una bambina di otto anni di nome Jesimel, che si stiracchia sul terrazzo inondato dall’alba e ha imparato a dire Io: «Io ci piace il sole!», è il nuovo cantico vero e bambino che risuona oggi ad Assisi.
Foto Ansa
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