Govindo, mio figlio. Dio mi tese un agguato a Calcutta

Di Caterina Giojelli
05 Luglio 2019
Come accadde che uno scarto scheletrico rivelò a Marina che c’è sempre una mano protesa nel buio

Articolo tratto dal numero di giugno di Tempi. Attenzione: di norma l’accesso agli articoli del mensile è riservato agli abbonati. Clicca qui per abbonarti a Tempi.

Varcata la soglia di Shishu Bhavan, sulla destra, per terra, c’era un bambino minuscolo. «Aveva le braccia e le gambe incrociate in una postura quasi fetale, ferme come se uno spasmo le avesse inchiodate per sempre in quella posizione. Era steso sulla schiena e guardandomi cercava di sollevare la testa senza riuscirci. Sembrava volesse venire da me o chiedermi di chinarmi su di lui e di prenderlo in braccio. E anch’io ero paralizzata. Non riuscivo a rispondere all’invito di quel corpicino crocifisso, che nel primo impatto visivo mi impauriva e provocava in me un senso di ripugnanza. Il massimo che sono riuscita a ottenere da me stessa quella prima volta sono stati pochi passi per avvicinarmi e un dito teso verso le sue manine. Una stretta fugace, il tempo di sentire le piccole dita stringersi come fanno di riflesso quelle dei neonati». Poi su Marina Ricci era caduta una pioggia di bambini, grappoli di bambini, centinaia di bambini con i lacrimoni, il moccio al naso, due suorine che sorridono a distanza, «Adoption, adoption». Era il novembre del 1996, la vaticanista del Tg5 si trovava a Calcutta per lavoro, inviata dal direttore Enrico Mentana: era giunta la notizia che madre Teresa era stata ricoverata al Birla Hospital della capitale indiana, si temeva per la sua vita, forse restava poco tempo per raccontare la sua opera nella Nirmal Hriday, quella casa per i moribondi che dieci anni prima aveva ammutolito perfino papa Wojtyla.

Ed eccola, Calcutta, miserabile, gigantesca latrina umana, ecco la Nirmal Hriday, casa dell’amore muto, dove parlavano solo i gesti delle mani rugose, consumate, misericordiose di Madre Teresa e delle sorelle missionarie della carità, mani tese a raccogliere dalle fogne a cielo aperto colerosi e reietti in fin di vita perché potessero morire amatissimi e assistiti come angeli. E soprattutto ecco l’orfanotrofio di Shishu Bhavan, dove vivere è sempre una lotta feroce combattuta tra un piatto di cibo dato a piccoli che gridano e sputano e scappano e allargano le braccia come in croce, e uno straccio usato da novizie adolescenti per pulir loro il viso – il cucchiaio cacciato in bocca, il capino serrato nei bianchi sari. Perché è qui, nel tabernacolo di una città dall’aria irrespirabile, brodaglia di schifo, miasmi e malattie, e vergogna – «la mia vergogna, la mia incapacità di chinarmi su un bambino crocifisso, la ripugnanza per la puzza di urina, la voglia di scappare quando anche il dolore del bambino è sgradevole» –, in quegli stanzoni dove ancora oggi vivono, mangiano e dormono centinaia di bambini e handicappati dell’orfanotrofio di Madre Teresa, che nel 1996 Marina Ricci incontrò suo figlio: Govindo.

Da Madre a madre

«Non abbiamo bisogno. Abbiamo un lungo elenco di genitori disponibili». «Bene, se non avete bisogno, meglio così. Io ho già quattro figli…». «Lei ha già quattro figli, il Signore le chiede qualcosa di più. Prenda uno di quelli che nessuno vuole. Prenda un bambino handicappato». Cosa accadde dopo lo shock procuratole dai bimbi di Madre Teresa e la doccia di lacrime al telefono col marito Tommaso, Marina Ricci lo ha già raccontato nel libro Govindo. Il dono di Madre Teresa (San Paolo). Un libro uscito tre anni fa, durante la canonizzazione di Madre Teresa al culmine dell’Anno Santo della Misericordia. Un libro che da tre anni genera attorno a sé avvenimenti impensabili, grazie a un sì detto da una madre che, senza corazza, decise di scrivere cosa accadde il giorno che incontrò Govindo, e poi nei giorni seguenti, e nei mesi seguenti, e che riaccade anche oggi che il tempo ha tutto un altro significato. «Non è facile riconoscere Dio in uno scheletro. Eppure Dio mi ha teso un agguato in un piccolo scheletro in un angolo dell’infernale Calcutta», racconta a Tempi Marina Ricci – e “Dio” lo mettiamo in capo a tutto questo racconto, perché se non si capisce che questa è la storia della sua presenza tastata nel buio dell’anima e nel volto piagato dei più poveri, non si capisce l’arsura in preda alla quale Madre Teresa diventò la santa del XX secolo, e neppure quella di una madre afferrata per i capelli e annegata nelle lacrime a Calcutta che in una creatura piccola e mortale si trovò faccia a faccia con l’eterno.

«Davanti alla richiesta della suora responsabile dell’adozione avevo iniziato a balbettare: un bimbo handicappato ha bisogno di una madre che stia a casa, io lavoro, non lo dico per me, lo farei anche, l’avevo pure visto un bambino… “Quale?”, disse subito la suora, “Me lo faccia vedere” – racconta Ricci –. Tempo dieci secondi e me l’aveva messo in braccio, quel piccolo dal corpicino legnoso che non avevo avuto il coraggio di abbracciare appena entrata a Shishu Bhava». A Calcutta, ripete Ricci, non c’erano divani per le teorie, e nemmeno per i discorsi intellettual-mediatici sul valore della vita: c’era solo, in quel momento, un’affermata giornalista capace di una meccanica recitazione delle preghiere della sera. C’era stato un tempo «diverso, colmo dell’amore inebriante per un Dio crocifisso», ma quel tempo si era sgretolato insieme alla comunità che frequentava, «senza quei volti che erano stati per me la sua carne e il suo sangue, ero scivolata in un limbo in cui non ero più né praticante, né atea. La mia inquietudine era stata rimpiazzata da una disperazione sorda, tenuta a bada dalla vita, e dalla solitudine che ognuno si porta dentro anche se hai figli, marito e lavoro». Ed eccola con Govindo in braccio e il cuore finalmente forzato, straziato, spalancato.

Non lo portò via subito. «“Vai a Roma, parla con tuo marito, che dice tuo marito?”: la prima a mettermi “tutto sul piatto” fu sister Frederick (leggete Govindo, leggete il ruolo che ebbe questa grande amica di Madre Teresa nella storia della famiglia Ricci, ndr), e non c’era giorno in cui amici e parenti non mi presentassero il lungo elenco dei disastri che sarebbero avvenuti a causa dell’adozione. Stavo mettendo a rischio tutto: la carriera, la solidità economica, la pace familiare, “come farai?”, sentivo ripetermi. Tutto sacrosanto. Io però avevo visto il bambino. Se Dio c’era non poteva che avere il volto di Govindo. Se era stato Lui a commuovermi e ad afferrarmi non poteva avere altra carne se non quella poca attaccata alle braccia e alle gambe scheletrite di Govindo. La percezione di questo era netta a me e anche a mio marito. La possibilità di allargare il cuore e scoprirlo ci stava facendo amare di più e in modo diverso da prima. Ero pur sempre una giornalista, per mestiere e per temperamento abituata anche a dubitare e verificare. Se Dio chiede qualcosa deve anche dare la forza per farla, mi ripeteva sister Frederick. E io ho dovuto cedere all’evidenza».

Muovere anime, spalancare domande

Nemmeno le obiezioni dei medici che dall’Italia consultarono la cartella clinica di Govindo, che parlavano di paralisi cerebrale spastica e microcefalia, hanno frenato i Ricci: «Ma questo non è un bambino, è un mostro», aveva esclamato la pediatra. «Mamma», ribattevano le figlie, «se dovesse capitare qualcosa di brutto a qualcuno di noi… allora che faresti? Ci abbandoneresti?». «Il fatto è che io non sapevo cosa avesse Govindo. Appena arrivato in Italia restò ricoverato un mese e mezzo. Per lungo tempo fu alimentato da un sondino naso-gastrico, e il suo corpicino disseminato di cicatrici di morsi di animali. Ci è accaduto di tutto. Dal luminare che, dopo una visita di dieci minuti e una lauta parcella, ci consigliò di tenerlo da parte “finché durava” a quello che ci chiedeva: “Non vede come è ridotto?”. Ma ci sono stati anche medici come la pediatra Zora Del Buono: quando venne a casa nostra, di passaggio a Roma perché lavorava a Bari, non mi parlò per un’ora. Passò tutto il tempo a osservare Govindo giocherellare sul tappeto. E quello che mi disse fu una boccata di aria fresca. I guai di mio figlio erano un impasto di tanti danni, quelli provocati dalla malattia, ma anche quelli causati dall’abbandono. Bisognava accarezzarlo molto, abbracciarlo, rompergli le scatole all’infinito. I miei figli, che insieme ai loro amici se lo passavano in braccio, lo imboccavano, lo cambiavano, sono stati la terapia migliore. Vedo ancora Maria che balla con Gogo, Luigi addormentato per terra con suo fratello sulla sua pancia, Cristina che riesce sempre a far ridere Govindo e Angela che lo sa tenere quieto quieto fra le braccia. Nessuno di noi voleva “riparare” Govindo. Volevamo solo amarlo. Quello che non sapevamo è quanto l’amore di Govindo avrebbe travolto noi».

Sono volati così gli anni a casa Ricci, tra risate e ricoveri in ospedale, allegria e preoccupazioni, stanchezze e soprassalti di energia, liti, rammendi. Come una famiglia qualunque, «ci volevamo bene», fino a scordare la sentenza di morte rappresentata dalla sindrome di Cockayne diagnosticata al bambino. I medici non si capacitavano della resistenza a vivere di Govindo, che compiva un anno dopo l’altro. Solo le suore di Madre Teresa non si stupivano, abituate a credere che l’amore compisse miracoli non solo fisici. «“E dimmi, dimmi: che effetto fa Govindo agli altri?”, mi chiedeva sister Frederick quando veniva a Roma. Come se avesse capito fin dal nostro primo incontro che Govindo avrebbe smosso le anime e spalancato domande. Davanti alla sua povertà, al suo linguaggio sigillato dal mistero, chiunque gli volesse bene capiva di non valere nulla, che gli mancava tutto. Ci aveva reso tutti mendicanti». Non è stato faticoso vivere Govindo e con Govindo. Quando, appena compiuti 18 anni, se ne andò, Ricci disse a sua figlia Angela, «ora abbiamo un sacco di tempo». La figlia la guardò dritta negli occhi, «sì, mamma. Ma per fare cosa?».

Un grande Sabato santo

Accadde a novembre del 2010. Fino in punto di morte Govindo riconobbe chi amava, stringendo la mano della sorella Cristina, la famiglia in ginocchio intorno al suo letto. Alla fine dei funerali Tommaso Ricci disse a quella chiesa stracolma di amici, colleghi, parenti e rivolto ai tantissimi che da Buenos Aires a Gerusalemme, da Calcutta a Milano pregavano per suo figlio che come «lanterna viva» aveva tenuto insieme la sua famiglia: «Un doppio grazie a te, figlio mio. Mi hai fatto sentire un papà scelto da suo figlio, prescelto, mi hai fatto sentire un papà migliore di quello che ero, non mi hai mai lesinato un sorriso, mi hai sempre cercato con le tue braccia, ti sei sempre avvinghiato al mio collo, anche quando non ero d’umore giusto. Mi hai reso, insieme coi tuoi fratelli, un papà felice. Grazie figlio mio. Il secondo grazie te lo preannuncio soltanto. La mia anima così appesantita da peccati, incoerenze, aridità, non può competere con la tua, così pura, limpida, innocente e perciò vicinissima a Dio. Però ho ancora una carta da giocare, sono tuo padre, mi devi l’obbedienza, ti chiedo perciò di aiutarmi a trasformare, d’ora innanzi, questo vuoto che mi annichilisce, che ci annichilisce, vero Marina?, in qualcosa di buono, in una nuova forma di quel bene che tanto ci hai regalato. Tu sei un figlio buono e so che lo farai. E io allora verrò a dirti il mio secondo grazie, quello definitivo, di persona, quando Iddio vorrà».

Di Govindo, o come dice Marina Ricci, «dell’amore, che ti afferra improvviso e ti avvolge nella sua rete finché smetti di agitarti e lasci che come una carezza la vita ti entri dentro e ti colmi di tenerezza», hanno scritto anche le sorelle Maria, Angela, Cristina, e il fratello Luigi. E di Govindo si continua a parlare, scrivere: a centinaia le persone smosse, come aveva previsto sister Frederick, dalla sua storia scrivono a sua madre «per raccontarmi la loro vicenda umana, mi parlano della loro disperazione. Mai come in questi mesi comprendo le parole del postulatore della causa di Madre Teresa, quando disse che Dio manda i santi necessari ad ogni epoca, e quelle di Joseph Ratzinger sul sabato santo, il giorno dell’apparente silenzio di Dio». Ha scritto, Ratzinger, «non comincia il nostro secolo a essere un grande Sabato santo, giorno dell’assenza di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto agghiacciante nel cuore che si allarga sempre di più, e per questo motivo si preparano pieni di vergogna e angoscia al ritorno a casa e si avviano cupi e distrutti nella loro disperazione verso Emmaus, non accorgendosi affatto che colui che era creduto morto è in mezzo a loro?».

Anche in una preghiera meccanica

Del “buio” di Madre Teresa si parlò tanto dopo la sua morte, quei lunghissimi anni di silenzio in cui la “voce” (che le aveva detto «ho sete di te, del tuo amore» e ordinato di dare vita a un ordine per annunciare il suo amore tra i più poveri dei poveri, preannunciandole sacrificio, sofferenza e fatica), aveva taciuto. «Fu allora che Madre Teresa partecipò alla passione dell’anima Cristo, che sudò sangue e si sentì abbandonato dal padre sul Getsemani. Come Cristo, e come l’ultimo dei reietti di Calcutta, Teresa visse la disperazione, il vuoto esistenziale del non sentirsi amati, voluti, desiderati. Ma anche la nostalgia di quel Dio a cui chiederà perdono per aver dubitato della sua esistenza, quella nostalgia che le impedì, come aveva promesso a sua madre quando partì per la missione, di lasciare la mano di Cristo anche solo attraverso la recita di una preghiera meccanica. Ecco il cristianesimo. Dentro quella mano si è afferrati tutti, con i nostri dubbi, la nostra solitudine, la nostra disperazione. Cristo nel buio la tende a tutti». Attraverso quelle rugose, consumate, misericordiose di una santa tra i poveri, attraverso quelle scheletriche di un bambino, tese ad afferrare il dito di una donna nel tabernacolo di Calcutta.

Foto Ansa

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