Il rischio Minority Report. Non c’è perdono senza giustizia
[cham_inread]
Articolo tratto dal numero di Tempi di settembre. L’autore, Guido Brambilla, è giudice della Corte d’appello di Milano.
Legge, giustizia, responsabilità, colpa, sanzione, perdono. Questa sequenza, che ha sempre caratterizzato i sistemi giuridici classici e moderni, è oggi fortemente in discussione, per vari motivi. Innanzitutto perché, sganciata dal riferimento antropologico ad un “ordo naturae”, comporta che leggi e sentenze risultino, spesso in tema di argomenti sensibili, dirette piuttosto ad affermare un principio di “assoluta autodeterminazione dell’uomo”, con la creazione pletorica di “diritti desiderio” che, invece di realizzare appieno l’esigenza di giustizia, finiscono, al contrario, per distruggerne la più profonda aspirazione. Che è poi quella di «suum cuique tribuere», dove per “suum”, come ci ha ricordato il papa emerito Benedetto XVI, deve intendersi tutto ciò che consente all’uomo di realizzare pienamente e veramente il proprio essere, così come definito dalla natura e dalla ragione rettamente intesa.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”] In secondo luogo i processi penali, come quelli civili, appaiono oggi troppo lunghi e desueti; riti arcaici non più compatibili con la velocità dei cambiamenti sociali ed economici. Infine la sanzione, specie quella penale, come il carcere, risulta anch’essa obsoleta, rimandando essa ad un concetto di colpa, di responsabilità personale, che risulterebbe espressione di un potere paternalistico e vendicativo dello Stato, generatrice solo di altro dolore inutile. I conflitti sociali generati dal reato potrebbero allora essere risolti da una giustizia che non ha più come esito l’affermazione di responsabilità e la punizione, ma che, diversamente, avrebbe lo scopo di ricucire il rapporto tra reo e vittima nella prospettiva di una riconciliazione.
Dico questo perché in un recente articolo apparso sul Foglio, intitolato “La legge non è la verità” (Andrea Simoncini e Davide Prosperi, 23 maggio, ndr), con riferimento al noto caso di Alfie Evans, è stato affrontato proprio quest’ultimo argomento, con spunti che mi hanno molto interessato. Premetto subito che condivido pienamente la prima parte dell’articolo laddove vengono espresse le prime due note critiche più sopra riportate. Vero è, infatti, che le “invasioni di campo” dei giudici in temi sensibili, come in quello di Alfie, sono oggi assai pericolose anche se, occorre aggiungere che, a sua volta, tale invadenza è spesso un precipitato di un più generale «crollo delle evidenze elementari», che ha investito dapprima la coscienza collettiva e la politica (cui spetta l’elaborazione di leggi e di norme per favorire la realizzazione del bene comune) per poi, a cascata, interessare tutte le formazioni istituzionali e sociali fino a raggiungere le coscienze individuali, comprese quelle dei giudici.
Ma dopo l’interessante premessa si afferma, poi, che essendo la verità, non una misura, ma anche relazione e rapporto, l’alternativa alla legge concepita invece come unico criterio di misura della verità, sarebbe quella della cosiddetta “giustizia riparativa”. Non capendo, sinceramente, il nesso tra mediazione penale e il caso Alfie, mi sembra, questo, un semplice spostamento del problema da un “procedimento” (quello sinteticamente processuale) ad un altro (quello della mediazione), essendosi, forse, ritenuto che quest’ultimo possa essere più utile o più efficace nella risoluzione dei conflitti sociali e di tematiche sensibili come quella di Alfie.
Non voglio qui entrare nell’analisi approfondita, non essendovi spazio né tempo, su cosa sia e come si sviluppi un processo di giustizia riparativa. Voglio solo qui anticipare come il problema di fondo, in quest’epoca di postmodernità, sia quello del male nel suo rapporto con la verità. Di certo il processo penale ed i giudici, anch’essi uomini con i loro limiti, non hanno il compito di “risolvere” il problema del male dell’uomo, così come la legge. A noi uomini spetta solo il compito, il “tentativo”, di cercare di ordinare le cose, i rapporti, secondo giustizia anche se non la potremo mai realizzare nella totalità dei suoi fattori. Nell’epoca attuale, invece, l’uomo, attraverso la tecnica, ha la presunzione di eliminare ogni male, ogni peccato, ogni ingiustizia, attraverso il suo pensare e fare.
Dovendo, però, inevitabilmente constatare l’impossibilità di questo tentativo e l’inefficacia risolutiva della legge e dell’intervento giudiziario, tende allora, in una prospettiva relativista, sempre più a negare la stessa esistenza del male, della colpa, della responsabilità personale, escogitando forme di “redenzione umana”. Le teorie (perché sono più di una) della cosiddetta giustizia riparativa, nate attorno agli anni Settanta, quindi immediatamente a ridosso del movimento del Sessantotto, sono germogliate dal cosiddetto abolizionismo penale (Hulsman, Christie, Foucault ed altri), che, influenzato da altre teorie, in particolare quella psicoanalitica, negano in radice il concetto di colpa, negano la sussistenza stessa del reato e del peccato, spostando l’attenzione, piuttosto, sul “conflitto”, sulla “situazione di conflitto” insorta. Il problema è quindi risolvere questo conflitto, cercare di rimarginare la ferita tra vittima e carnefice e la società. Altre di queste teorie, più ispirate ad un cristianesimo sociale, si rifanno, più o meno tutte (nella manualistica è infatti più volte citato) al pensiero del gesuita Karl Rahner, secondo il quale «il male ci precede e quando operiamo non lo facciamo mai da soli e in modo isolato, ma ci misuriamo in una realtà co-plasmata dal male degli altri».
L’abolizione del sistema penale
Insomma, in questo caso non si disconosce l’esistenza della colpa, ma la si “diluisce” in un male sociale e collettivo (cosa ben diversa dal fatto che siamo tutti peccatori, perché lo siamo tutti, ma singolarmente). Vero è che il peccato contiene già in sé la sua “punizione”, perché, allontanandoci da Dio, ci fa soffrire, star male. Da ciò, tuttavia, altri autori hanno inferito che sarebbe quindi sufficiente la punizione intrinseca allo stesso peccato a bastare, essendo inutili le sanzioni ulteriori inflitte dagli uomini, percepite come mera vendetta. Ma, mi domando, se gran parte di tutte le teorie sociologiche, psicologiche, filosofiche ed anche teologiche moderne giungono ad affermare che il peccato e il male non esistono o che sono indistinguibili dalle colpe collettive della società liquida, perché mai dovremmo “sentirci in colpa”, soffrire per il male causato?
Mi affranco subito da questi temi, lasciandoli a chi ha sicuramente più competenza, per porre solo alcune domande che, spero, possano aprire una prospettiva di dialogo:
• siamo sicuri che un mediatore professionale avrebbe “risolto” il caso Alfie, muovendosi su quel terreno personale di aiuto e compassione di cui parla l’articolo?
• Chi conferisce autorità al mediatore? La legge? Una convenzione pubblica o privata? Possono essere la conciliazione e il perdono frutto di un altro tipo di “procedimento”?
• L’autorità del mediatore (terzo ed estraneo rispetto ai soggetti coinvolti, come il giudice) è “autorevole” per le parti in gioco?
• Può essere il procedimento di mediazione fonte di “senso” che aiuti la vita del carnefice e della vittima?
Secondo me il problema, come più sopra accennato, non è la scelta tra giudice o mediatore bensì la riscoperta dei fondamenti antropologici della giustizia e del diritto.
Ma un altro punto mi preme ancora sottolineare. Se si va al fondo delle teorie sopra accennate, l’abolizione delle pene, del diritto penale, il superamento della stessa concezione di colpa criminale e di crimine, non possono che portare ad una riformulazione della stessa necessità di “prevenzione”, oggi, benché in modo spesso opinabile, assicurata anche dall’effetto deterrente delle pene. Ma l’abolizione del sistema penale potrebbe portare solo allo spostamento della logica punitiva in altri ambiti, come quello di una prevenzione generalizzata.
Eliminare la colpa col sapere
Il pelagianesimo moderno, sempre nemico del concetto di peccato originale e della possibilità del perdono autentico, non si pone più il problema del reato, che viene ad essere definito «un’espressione di disadattamento», né quello della responsabilità connessa alla libertà dell’uomo.
In altri termini, per tali teorie abolizioniste, non ci sarebbe più bisogno di parlare di reato o di colpa, se si riesce a prevenire coattivamente o a risolvere diversamente il conflitto sociale generato da un’azione o da un’omissione. Non esisterebbe più il reato, né il reo: la situazione-conflitto verrebbe ad essere risolta prescindendo dalla sequenza libertà-responsabilità-punizione: il delinquente è solo un malato da guarire, un disadattato sociale. Al giudice si sostituirebbero solo gli psichiatri o gli assistenti sociali con ampio ricorso all’eufemismo o al trasformismo lessicale. Per cui il pericolo è che la violenza, oggi riconosciuta nell’“obsoleto” sistema punitivo dello Stato, si possa trasferire solo in altri ambiti e trasformare in altre forme di esercizio del potere di controllo, ancor più irrispettosi della dignità della persona umana.
Benedetto XVI, nel suo testo ultimo uscito Liberare la libertà, usa parole illuminanti su questo tema: «Uno dei dati più opprimenti dell’esperienza umana è che la nostra forza distruttiva è molto superiore alla nostra forza risanante. Il retaggio della colpa va ben oltre il raggio del perdono e della riparazione. (…) Non è possibile eliminare la colpa con il sapere, rimuoverla con l’analisi. Essa esige un potere di cambiamento che va al di là delle capacità umane». Quello di cui ha bisogno l’uomo è una «compagnia che lo sostenga anche nella morte e che possa dare un senso al suo dolore». E non si tratta di un problema specificamente cristiano, aggiunge l’autore: si tratta di domande «che hanno impegnato la storia di tutte le religioni di tutti i tempi». Tante sono le pagine dedicate al tema della colpa da Benedetto XVI, nel testo sopra citato. È interessante notare qui, per brevità, come egli ritenga, da ultimo, l’assenza del senso di colpa una malattia più grave della stessa colpa. Già, perché l’assenza di colpa porta all’inutilità di un Redentore.
La giustizia umana, in tutte le sue forme, insomma, non può di per sé risolvere questo grande problema, non può risolverlo, con una redenzione dell’uomo da parte dell’uomo.
La cittadella della felicità
Nel bel libro dell’autore scandinavo Henrik Stangerup, L’uomo che voleva essere colpevole (dove appunto il protagonista, che uccise la moglie in un momento di ubriachezza, non viene ritenuto “responsabile”, non viene punito, in uno Stato dove il conflitto viene risolto con la sottrazione dei figli, il suo “collocamento” in una cittadella della felicità, con la somministrazione di medicine e con la presenza rassicurante di assistenti sociali e di psichiatri che amorevolmente gli continuano a dire, invano, di “non sentirsi in colpa”, perché tutto è risolto, tranne, però, il suo bisogno di espiazione), Anthony Burgess, che ne curò la prefazione, ebbe a dire che questo tipo di società è la realizzazione più compiuta del pelagianesimo moderno. Pelagianesimo contro cui si è scagliato recentemente papa Francesco, nella sua lettera Placuit Deo.
Non affidiamoci quindi troppo alle “strutture” e ai “meccanismi procedurali”, non affidiamoci ad una salvezza da noi creata. Certo, le strutture, le procedure vanno sempre migliorate in funzione del miglior benessere della persona, ma, senza l’apertura al Mistero, il bene migliore diventa il «best interest» in qualunque procedura, in qualunque politica, in qualunque meccanismo decisionale.
«Lo Stato liberale secolarizzato, infatti, vive di presupposti che non può garantire». Questa tesi, altrimenti definita, come il “dilemma” di Bockenforde, forse il più noto studioso di diritto costituzionale di nazionalità tedesca, sostiene come il concetto di Stato non sia un concetto valido in generale, ma che sia il frutto di un duplice lento processo storico avvenuto in Europa a partire dal tardo Medioevo.
Böckenförde giunge alla seguente conclusione: se lo Stato ha potuto affermarsi come strumento di pacificazione riconoscendo progressivamente ai propri cittadini il diritto ad orientare liberamente le proprie coscienze, il medesimo Stato non può che “correre il rischio” che la propria base spirituale resti affidata alla libertà dei medesimi e, per rispetto di essa, ne deve necessariamente accettare i rischi connessi.
Non potendosi ritenere che la “neutralità” dello Stato possa essere intesa come assenza di contenuti o mero insieme di procedure, l’ethos dello Stato, secondo il pensiero conclusivo di Böckenförde, non può allora che fondarsi «su un nucleo profondo di decisioni politiche che attengono alla forma stessa di vita di una comunità politica nella sua essenza più profonda e che non possono essere affidate ai giochi delle maggioranze variabili».
Compagnia ai carnefici e alle vittime
Ed è per questo, mi sembra, che Benedetto XVI, nell’ultimo libro uscito, con la prefazione di papa Francesco, afferma che in luogo di una democrazia formale – basata sul principio di maggioranza – bisogna giungere a una democrazia reale, che conservi un nucleo «non-relativista», un «fondamento di verità», irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della democrazia. E a ciò si può giungere solo mettendosi «in ascolto delle grandi tradizioni religiose». Anche il pensiero laico, se non si mette in interlocuzione con la tradizione religiosa, si inaridisce e diventa un vuoto gioco di concetti. Ed infatti, il processo di secolarizzazione, nel relativizzare e ridurre la religiosità dell’uomo, ha finito per travolgere anche, e più a fondo, la stessa filosofia laica, animata da sempre da un reciproco rapporto di alimentazione con la spiritualità delle grandi religioni.
Ed allora il compito, a mio parere e in conclusione, è quello di uno Stato, di una politica, di un sistema giudiziario, penitenziario, istituzionale, che, tentativamente, recuperino questo “nucleo” di verità e di fondamenti antropologici, specie quello di “persona”, nell’ascolto delle grandi religioni e delle grandi filosofie autenticamente laiche.
Sotto altro profilo, poi, lo Stato deve favorire – come la nostra Costituzione statuisce – la realizzazione e lo sviluppo di quelle comunità, ove tante persone di buona volontà, silenziosamente, stanno facendo ogni giorno compagnia nella verità e nella carità. Compagnia ai carnefici, alle vittime, compagnia che condivida le rispettive sofferenze e ne porti assieme a loro il peso, riempiendole di senso e di speranza. Solo da lì, inattesi, per Grazia, possono giungere il perdono e la riconciliazione. Ed ovviamente con l’aiuto della giustizia riparativa, se anch’essa orientata ad una prospettiva di senso e di aiuto alla persona umana.
Foto Ansa
[cham_piede]
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!