Giuseppe Schillaci, scienziato e missionario
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Nei confronti di una persona che negli ultimi giorni di vita si è rivolta agli amici più vicini dicendo loro «vi ho dato tutto… ma ho ancora molto da darvi», non si può non provare timore reverenziale. Misto a stupore quando si scopre che non di un fondatore di ordini religiosi o di un parroco noto per l’abnegazione apostolica si trattava, ma di un medico docente universitario e primario ospedaliero, sposato e padre di tre figli.
Sulla lapide di Giuseppe Schillaci, professore associato di medicina interna all’Università di Perugia e responsabile del Centro per la diagnosi e la cura dell’ipertensione arteriosa all’ospedale di Terni che ha lasciato questo mondo il 21 dicembre scorso, ci potrebbe essere scritto “scienziato e missionario”, e sarebbe la pura verità. Non perché si sia trasferito in terre lontane per predicare il Vangelo – anche se molti viaggi nel corso della sua vita ha compiuto, per partecipare e relazionare a convegni internazionali sulle patologie dell’ipertensione arteriosa a Oslo, Tokyo, Seoul, Berlino, Londra e varie città degli Stati Uniti – ma perché a tutti si proponeva con la sua umanità resa autentica dalla fede, con tutti cercando di entrare in rapporti profondi e carichi di affetto.
Ne è prova esteriore ma suggestiva la presenza di quasi duemila persone, di ogni estrazione e provenienza umana e geografica (dalla Lombardia alla Puglia, dal Piemonte alla Sardegna), alle esequie che si sono svolte presso la parrocchia Maria Regina della Pace, a un tiro di sasso dal Polo di Ingegneria dell’Università di Perugia. E il fatto che al professor Schillaci abbiano rivolto il loro commosso pensiero con messaggi e pubbliche dichiarazioni persone diverse come il cardinale arcivescovo di Perugia Gualtiero Bassetti e la presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Ha scritto il primo in un testo letto durante le esequie: «Giuseppe era da tutti noi conosciuto e amato per la sua ricca umanità, per la sua professionalità esercitata con passione e carità, per la sua fede genuina. Cresciuto nel movimento di Comunione e Liberazione, si era abbeverato a quella fonte inesauribile di fede e di impegno che è stato il servo di Dio don Luigi Giussani, spendendo la sua esistenza cristiana a favore della famiglia, degli amici del movimento, dei pazienti, della nostra Chiesa diocesana. In questi ultimi anni il suo impegno di solidarietà era anche diretto verso i nostri fratelli cristiani, umiliati e perseguitati nel mondo».
E l’esponente del Pd: «La scomparsa del professor Schillaci ci addolora enormemente. Se ne va un vero scienziato, un professionista colto e competente, dotato di grande umanità nella relazione con i pazienti. Ne ho sempre apprezzato le doti umane e professionali, espresse da una grande passione per il lavoro ed attenzione ai processi di innovazione e cambiamento nella sanità pubblica regionale e del paese. A noi tutti rimarrà il ricordo e l’apprezzamento delle sue competenze e l’amarezza di non averlo più con noi».
Una febbre di vita e di senso
Nato e vissuto in Sicilia fino al 1988, quando si trasferisce in Umbria dopo essersi laureato in medicina a Palermo e aver esercitato per due anni come ufficiale medico presso l’ospedale militare di Agusta (Siracusa), Schillaci era un figlio spirituale di don Francesco Ventorino, noto fra gli amici come “don Ciccio”, il sacerdote che ha impiantato l’esperienza di Cl in Sicilia. Siciliana, ciellina e laureata in medicina è anche la moglie, Chiara.
A detta di tutti quelli che lo hanno conosciuto Giuseppe riassumeva in sé le migliori qualità del sacerdote siciliano e del movimento che aveva incontrato attraverso di lui: la totale compenetrazione fra fede e vita, l’insopprimibile bisogno di giudicare i fatti dell’attualità a partire dall’esperienza di fede vissuta comunitariamente, la passione per la realtà tutta intera, la tenacia, l’accoglienza e la considerazione per la singola persona, la febbre di vita, il calore umano, la missionarietà, il senso di appartenenza a un popolo e alla Chiesa universale, il credito riconosciuto all’amicizia cristiana in cui si considerava coinvolto.
Non a caso l’immaginetta con la quale i suoi amici lo hanno voluto ricordare, dove lui appare seduto su una panca della splendida Sala dei Notari nel cuore del centro storico perugino, reca il seguente testo tratto da una sua lettera: «Noi popolo abbiamo bisogno di essere confortati in un giudizio di misericordia, cioè che un padre, un fratello ci ricordi e ci testimoni che la nostra amicizia non è un accidente, una conseguenza etica di un comportamento corretto, ma è voluta da un Altro che ci ha chiamati e voluti insieme così come siamo, con i nostri limiti».
Quegli stessi amici che nel corso della Messa funebre lo hanno ricordato dal pulpito, affidando i propri pensieri alla voce di Elena Fruganti, insegnante: «Oggi diversi tra noi perdono il loro “migliore amico”, per noi era il gigante, che seguivi senza neanche porti il problema, era come andare dietro a Gesù (…). Tramite Giuseppe, ciascuno di noi ha ritrovato la propria umanità risvegliata, rigogliosa, capace, al di là di ogni nostro limite, di farsi mano, parola, cuore, intelligenza nelle mani di un Altro. E inaspettatamente ci siamo ritrovati parte di un popolo, di una amicizia, che a questa rinascita dà concretezza, perché per noi è luogo della Presenza che ne è la vera origine».
E risvegliati nell’umanità si sono ritrovati non solo i fratelli nella fede, bensì anche colleghi ed ex studenti. Ha scritto Gianfranco Parati, presidente della Società italiana di ipertensione arteriosa di cui Schillaci era stato tesoriere e ora era segretario: «Beppe era malato da anni e da anni lottava contro il male che lo ha ucciso, ma non lo ha mai vinto. Non è un caso se, fino a pochi giorni or sono, non un solo impegno relativo al suo ruolo di segretario della nostra Società sia stato omesso o saltato. E sino all’ultimo ha voluto onorare anche gli inviti a lui rivolti come brillante oratore, utilizzando le tecnologie per raggiungere le sedi congressuali ove non riusciva più a recarsi fisicamente. E sempre con la massima efficacia oratoria. Ora Beppe è nella nostra memoria. Ci rimarrà per sempre per la sua innata simpatia, per la sua affabilità siciliana, per la sua immensa scienza, per le sue capacità professionali. Soprattutto, però, Beppe è ora nella terra dei Giusti e nelle mani di Dio».
«Sono ricercatore a causa sua»
La caratura scientifica di Schillaci è fuori discussione: 300 pubblicazioni scientifiche (di cui 218 su riviste internazionali) e l’attribuzione da parte della European Society of Hypertension del titolo di Centro di eccellenza europeo nell’ipertensione al Centro da lui creato e diretto, sono lì a dimostrarlo. Quest’ultimo risultato si è realizzato negli anni della malattia, che hanno coinciso col suo passaggio dall’Azienda ospedaliera di Perugia a quella di Terni. Per il 2016 il professore aveva programmato il suo ritorno a Perugia come primario, cosa per la quale era stato costretto a presentare con la domanda una significativa quota delle sue pubblicazioni in forma cartacea: aveva dovuto effettuare tre spedizioni postali distinte per problemi di peso dei pacchi.
Pure i suoi ex studenti, oggi medici e ricercatori affermati, hanno voluto far conoscere il loro debito verso la sua persona. In una lettera ai giornali locali scrivono: «Eravamo tutti estasiati alle sue lezioni in cui, chiamandoci per nome, ci chiedeva di porci nei panni del clinico nel dipanare la coltre di nebbia delle varie ipotesi diagnostiche al fine di avvicinarsi quanto più possibile alla soluzione del problema. Ci ha insegnato a difendere una teoria, anche se inizialmente suffragata solo dall’istinto, per poi, però, corroborarla dei dati clinici che via via emergono, restando, comunque, sempre molto critici sulla propria idea e cercando di smontarla con obiezioni ugualmente efficaci. Il professor Schillaci ci ha insegnato un’epistemologia euristica che non escluda a priori il guizzo, l’estro artistico dell’intuito e della creatività logica».
Uno di loro, Giacomo Pucci, ora è ricercatore universitario di medicina interna e dirigente medico convenzionato dell’ospedale di Terni. Ha conosciuto Schillaci alla scuola di specializzazione nel 2004, e da allora ne è diventato allievo: «Senza retorica, devo dire che ho imparato tutto da lui, è a causa del rapporto con lui che ho deciso di diventare ricercatore. Il suo rapporto coi pazienti era fantastico: credo che metà delle persone presenti al funerale appartenessero a questa categoria. Offriva la sua compagnia a tutti i suoi pazienti, indipendentemente dalla loro condizione clinica, e questo diventava un segno indelebile nella vita di ciascuno di loro, si sentivano legati alla sua persona. Coi colleghi e col personale non l’ho mai visto avere uno scatto d’ira, era certo di alcune grandi cose ma non era mai nella posizione di chi ha qualcosa da difendere contro altri. Aveva uno sguardo che andava al di là di ogni dissidio, per affermare che c’era qualcosa di più grande che lo legava a chiunque incontrava: colleghi, personale, pazienti, studenti. La sua empatia era veramente particolare, faceva intendere a chiunque senza bisogno di esplicitarlo: “Anche se sei mio avversario su questo punto, siamo insieme, apparteniamo a un unico destino”. Per questo nessuno lo detestava».
I fratelli perseguitati
Come ha ricordato il messaggio del cardinal Bassetti in occasione del funerale, negli ultimi anni Schillaci si era molto appassionato alla questione dei cristiani perseguitati. Aveva organizzato incontri sull’argomento, promosso raccolte di aiuti, partecipato alla fondazione del Comitato Nazarat che il 20 di ogni mese organizza rosari pubblici di solidarietà coi cristiani perseguitati in una dozzina di città italiane. Tre anni fa aveva conosciuto e poi era diventato molto amico di Ayman Haddad, un cristiano italo-siriano, ingegnere e docente di lingua e cultura araba nativo di Damasco, residente in Italia dal 1991. «Più che amici eravamo diventati fratelli», racconta Haddad. «L’ho visitato per l’ultima volta il 15 dicembre, una settimana prima del decesso, e l’ho trovato vivace come sempre nonostante l’evidente sofferenza. Abbiamo festeggiato insieme la liberazione di Aleppo e commentato le notizie di stampa che mi aveva spedito via e-mail nei giorni precedenti. Giuseppe era sempre aggiornatissimo, approfondiva i dettagli, quando parlavamo sembrava fossimo cresciuti insieme a Damasco. La causa dei cristiani siriani era diventata la sua causa personale, voleva che tutti vedessero in loro dei fratelli. Di lui mi colpivano soprattutto l’amore per la vita e la tenacia. Non sprecava nemmeno un istante della vita, voleva continuare a dare tutto di sé fino all’ultimo. Amava sia parlare che ascoltare, i suoi interlocutori restavano colpiti da questo. È stato un grande seminatore di bene nelle persone che lo hanno conosciuto, io e alcuni amici lo chiamavamo proprio così, “il seminatore”. E sono rimasto meravigliato quando ho scoperto che Il seminatore con sole che tramonta di Van Gogh era uno dei suoi quadri preferiti, ne teneva una riproduzione nel suo studio e i figli hanno utilizzato quell’immagine per ricordarlo».
Amico degli ultimi due anni del passaggio terreno di Schillaci è stato anche Egisto Mercati, oggi presidente dell’associazione culturale Esserci. «Due anni fa l’ho chiamato al telefono e, in pochi minuti, gli ho parlato del bisogno di vera amicizia e di andare a fondo su tutto quello che alcuni amici sentivano come urgente. Lui ha aderito subito: “Io ci sto, quando ci vediamo?”. È entrato con energia, catalizzando tutti intorno a sè. Lo abbiamo visto muoversi, suscitando attrazione perché prendeva a cuore ognuno, dando vita a un mondo di persone. Non ha mai perso tempo, ma non si è mai seduto a tavola mettendo fretta. Non l’ho sentito una volta parlare male o contro qualcuno, però l’errore evidente lo turbava e si chiedeva: “Ma come è possibile?”. Ha vissuto intensamente il reale, cogliendo in ogni istante la possibilità di verità e di rapporti con tutti. A inizio dicembre mi ha detto all’improvviso: “Che cosa bella che è Esserci!”. E mi sono ricordato di quante volte, senza farlo pesare, ha cambiato la sua agenda spostando impegni accademici perché dovevamo vederci, strappando le ore al sonno e lavorando la notte per il carico della sua professione. Negli ultimi tempi abbiamo parlato anche della morte, di questo incombere che ci spiazza, ci mette a nudo; mai ho avvertito in lui una ribellione mentre appariva insistente, enigmatico il domandarsi quale sarebbe stato il suo compito, dopo. Perché sentiva che ciò che Dio ha iniziato, non finisce mai».
Foto: Francesco Bastianelli
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