Non ti abbiamo perso, amico Giovanni Testori
«Grazie, amico! Non ti perderemo per sempre, perché ci hai aiutato a conoscere di più e ad amare e a lavorare per Cristo». A chi mai parlava don Luigi Giussani quando pronunciò l’omelia per il funerale di Giovanni Testori, afferrato da Cristo una mattina presto di 30 anni fa? A noi qui ora e lì allora, presenti o meno nella chiesa di Novate Milanese sigillata a tutte le telecamere tranne una – e Dio benedica quel montatore Rai che ne salvò la registrazione riconoscendola tra mille cassette destinate a cancellazione e riciclo, e la custodì gelosamente nel suo armadietto dove venne ritrovata, qualche anno dopo, quando morì anche lui.
Ai famigliari travolti dalla sua «tenerezza intensa e tenace». Ai giovani di cui Testori divenne padre e riferimento nella «sperdutezza», e in cui egli stesso trovò un punto di speranza («“Sono venuti!”», dicevi, e stranivi chi ti ascoltava – ricordava Giussani –. E ti sei buttato con loro, e hai creato tutto con loro, li hai ricreati»). A tutti gli uomini di cui Testori aveva parlato e a cui aveva parlato, ciascuno con la sua croce immensa e responsabili del dolore del mondo «per il peccato che in ognuno di noi è».
A tutti parlava Giussani parlando a Giovanni Testori, «profeta», «umile santo» dominato da una parola più grande di sé, «perdono», e dalla domanda di misericordia che nella storia ha un nome: «Cristo. Quante volte te l’ho sentita dire questa parola così radicalmente opposta alla bestemmia, l’opposto della bestemmia – e la bestemmia fondamentale è la dimenticanza, perché se Dio ha creato il mondo, se questo Dio, poi, è diventato uno di noi, dimenticare questo è veramente il male più grande, la bestemmia più grande. Quante volte te l’ho sentito dire: l’amore a Cristo, Cristo, Cristo Dio».
L’incontro con quei giovani universitari e con don Giussani
Si è letto e scritto tanto su cosa spinse un manipolo di giovani universitari di Comunione e liberazione a bussare alla porta di Giovanni Testori dopo aver letto il suo commento sul Corriere per il rapimento di Aldo Moro e l’uccisione degli uomini della scorta. E anche sul perché Testori li accolse, e cosa accadde dopo, quando i ragazzi lo presentarono a don Giussani. Di quell’incontro che divenne un torrente senza argini di incontri che squarciarono e ulcerarono fino alla grazia le vite di molti – rendendo Testori il protettore delle loro avventure editoriali, artistiche e teatrali –, abbiamo testimonianza incessante da trent’anni grazie al lavoro di Giuseppe Frangi e di Casa Testori (a cui rimandiamo per il programma del centenario dalla nascita che cade il prossimo 12 maggio – e su cui torneremo).
Ai “figli” del Gius mancava un Pasolini. Trovarono Testori
Ma l’origine, quella dice ancora molto, se non tutto della sua presenza qui, oggi, a trent’anni dalla morte: correva il 1978, epoca di vecchie Br e sequestro Moro, e in un ambiente culturale e intellettuale ferocemente ostile ai cattolici popolari ai “figli” di don Giussani mancava un uomo come Pasolini, che fosse in grado di trasferire le istanze umane imparate dal Gius «in un unico sguardo laico sulla realtà storica che ci passava sotto gli occhi tutte le mattine – scrive nel suo Una gratitudine senza debiti Luca Doninelli, lo scrittore che diventerà di Testori il discepolo prediletto –: i discorsi dei “cattolici” e le omelie dei preti e degli editorialisti “credenti” non ci interessavano ed era opinione comune che, se il grande poeta friulano fosse stato ancora vivo allora sì avremmo potuto leggere, sul caso Moro e sulle sue implicazioni definitive (comunque andasse a finire quella brutta storia) parole diverse da quelle che impiombavano giornali e telegiornali. Non ne potevamo più di tutto questo sangue, ma nemmeno di tutto questo ribadire e riaffermare». Questi erano loro.
E poi c’era lui, il possente scrittore, drammaturgo, pittore, critico d’arte, poeta, regista, attore, uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento che a 55 anni aveva già fatto tutto, soprattutto scandalizzato benpensanti e malpensanti, amato quanto odiato dall’élite della cultura italiana che da oltre tre decenni invocava sulle sue opere l’intervento ora della celere ora delle Belle Arti: Testori, allievo prediletto di Longhi, amico di Visconti e Parenti, sodale di artisti eccentrici quanto geniali e di teatrali “scarrozzanti”, sempre inquieti, “riconvertito” dopo la morte della madre.
Testori e quei ragazzi in cerca di qualcosa
È lì, in quel piccolo e ombroso appartamento di via Brera, tra pareti ricoperte di quadri appesi e ammassati, dritti e capovolti, dove l’intellettuale lavorava, scriveva, lasciava che il suo teatro desse alla carne parole nuove o arcaiche, ritrovava il senso ultimo delle tragedie, o cercava nei quadri dei giovani autori il segno di quell’ombra, di quella impronta, Testori conobbe e si riconobbe in quei ragazzi in cerca di qualcosa che desse senso a tutto. In quella “macchia”, avrebbe detto battendosi molte volte poi la crapa fissandoli con quei terribili occhi azzurri: il sacro segno di Dio che l’uomo porta dentro di sé come porta le sue ossa e il suo sangue, o ancora piangendo per la notizia di un crimine, un suicidio, un terremoto, piangendo per i malati, i disperati, gli ostiati, i feriti, scavando con le mani nel bracciolo della poltrona.
«Tante volte mi ha raccontato la storia di quell’uomo ammanettato, che i gendarmi conducevano in prigione e che lui bambino in compagnia della mamma incrociò per strada – ha scritto ancora Doninelli –. L’uomo si voltò e gli disse ciao, allora lui chiese alla mamma perché lo avevano arrestato. Perché, rispose la mamma, ha rubato una mucca. Una volta interruppe il suo racconto e disse: “Quello che ho fatto per tutta la vita è il tentativo di dire quello che ho provato in quell’istante”».
«La cultura è la pienezza della coscienza di esistere»
Testori li mise tutti al lavoro e al seguito di quella posizione umana («La cultura non è un privilegio. È molto di più, è un bene di tutti; la cultura è la pienezza della coscienza di esistere. L’uomo desidera conoscere la propria vita e la vive conoscendola in rapporto alla sua ragione prima, che è religiosa. Invocare il Padre nostro, ringraziare per il pane quotidiano e andare a Messa: cosa sono questi atti se non cultura?», diceva ai ragazzi polemizzando con Goffredo Parise e la sua definizione di cultura quale “sete di sapere”).
Fu lui a persuadere Rizzoli a inaugurare una collana dedicata allo spirito cristiano poi diretta da Giussani, a consegnare a Doninelli la croce di scrittore, a traghettare il settimanale Il Sabato nel mare aperto della pubblicistica non confessionale, a tenere a battesimo la Compagnia degli Incamminati con Emanuele Banterle e, come profeta, a gridare contro l’attacco alla verità di un popolo e a far valere le ragioni dell’umano attraversando discipline e schieramenti, dal romanzo alla poesia, dal teatro alla critica d’arte, fino al giornalismo.
«Non si può risorgere senza insorgere»
Fino a noi: «Credo che il mondo e soprattutto i cristiani hanno la responsabilità e il destino, che è la sola speranza, di tentare di essere contemporaneamente insurrezionali e resurrezionali – è il celebre fra noi “non addetti ai lavori” lascito di Testori –. Nel frangente di storia nel quale Dio ci ha messi non si può risorgere senza insorgere: insorgere contro ciò che si sta operando contro l’uomo creato e la creazione tutta. Qualsiasi insurrezione che non nasca da una certezza, da un bisogno e da una speranza di resurrezione cade, diventa oggi più che mai vittima e strumento del potere».
Una mattina di trent’anni fa, alla vigilia di tanti altri libri e avventure culturali ed editoriali scatenate dalla sua amicizia, morì Giovanni Testori. E nulla di questa amicizia è andato perso grazie ai suoi amici, che ci hanno aiutato e ancora ci aiutano «a conoscere di più e ad amare e a lavorare per Cristo».
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