Gheddo:«Dopo l’inferno del genocidio, un po’ di pace per il Ruanda»
A diciotto anni dal genocidio che devastò il suolo ruandese e provocò più di 800.000 morti, non si è ancora conclusa l’indagine per identificare i responsabili della strage. Mentre il Tribunale internazionale con sede in Tanzania si dedica al giudizio delle grandi menti ritenute responsabili (in quindici anni solo 46 persone giudicate), i piccoli tribunali locali detti, in lingua kinyarwanda, gacaca hanno finalmente esaurito i processi delle migliaia di persone implicate.
Per approfondire la questione tempi.it ha parlato con padre Piero Gheddo (in foto), missionario del Pime e profondo conoscitore delle vicende ruandesi.
Padre, lei è stato testimone della situazione dei paesi africani per più di cinquant’anni. Come vede la situazione attuale in Ruanda?
Riconosco che nei piccoli villaggi è tornata un po’ di serenità. Essendo presente allo scoppiare del genocidio, ho visto le chiese scoperchiate dagli incendi con dentro decine di cristiani e la fossa scavata subito fuori dalle mura distrutte dove mettere i corpi bruciati, ammonticchiati in maniera rapida. Si vedevano mani emergere dalla terra. Non si poteva girare per strada soli: lo stesso vescovo alloggiato nei pressi del lago Kivu era difeso da due suore polacche. Un genocidio non si spiega coi numeri o a parole, bisogna vederlo per capire la sofferenza, altrimenti si rischia di ridurre tutto ad un’inutile astrazione. Questa non era neanche la prima strage fra hutu e tutsi. Già nel 1972-1973 in Burundi un tentativo di colpo di stato hutu portò alla reazione violenta del governo dominato dai tutsi, con lo sterminio di 200.000 hutu. Nel 1973 il generale Habyarimana procedette al colpo di Stato in Ruanda ed istituì un regime autoritario nel 1975. Sono felice che stia ritornando la tranquillità in Ruanda, le persone meritano una vita nuova dopo guerra e dolore.
Perché tanta violenta divisione tra etnie che condividono la stessa religione cristiana?
Sono cristiani, ma sono obbligati a uccidere altri cristiani per non essere ammazzati a loro volta. Da sempre Ruanda e Burundi condividono due caste sociali, una detiene il potere, l’altra è la servitù. Hanno lingua e religione comune ma la storia li ha cresciuti in maniera differente. I tutsi, essendo di corporatura resistente e avendo ricevuto un’educazione militare, sono stati subito reclutati dai belgi nel 1924 sotto il mandato della Società delle nazioni per svolgere mansioni da funzionari. Gli hutu, visti come popolazione inferiore, solo con l’indipendenza hanno iniziato ad acquistare potere, grazie al loro numero e all’intenso stimolo ideologico. La collisione è inevitabile.
Come giustifica l’indifferenza dell’Onu alla strage del ’94?
Non è indifferenza. L’Onu non interviene in Nigeria oggi, così come non è intervenuto in Ruanda, semplicemente perché non reggerebbe l’impatto. Le operazioni nelle aree africane richiedono un enorme impiego di mezzi, uomini e soprattutto preparazione. Chi avrebbe potuto mandare nel ’94? Chi delle grandi potenze mondiali si offre di mandare uomini in Africa durante un genocidio? Spesso gli interventi occidentali sul territorio recano più danni che benefici; ho assistito a soldati partiti dall’Europa per portare aiuto e finiti a saccheggiare anch’essi i villaggi. La gente ruandese preferisce stare da sola coi propri problemi interni piuttosto che assistere ad altre ingerenze vane.
Che cosa permette all’uomo africano di sopravvivere alle continue guerriglie e ribellioni locali?
L’africano è un uomo che dimentica in fretta, e in questo mi ha sempre affascinato. Fosse successo un massacro tra caste in Italia, noi staremmo ancora bendandoci le ferite di guerra. Loro invece ricominciano a camminare, anche se hanno amputato loro le gambe. Ogni volta che torno a Milano penso che noi siamo i privilegiati dell’umanità, perché da più di 50 anni siamo in pace. Eppure non ce ne accorgiamo nemmeno, abbiamo la crisi finanziaria e ci lamentiamo di ogni piccola complicazione, ma la grazia che ci è concessa è immensa. All’ombra delle decisioni internazionali i ruandesi riprendono la loro vita fatta di tradizioni e danze, di cui noi, popoli evoluti, non conosciamo più i passi e di cui possiamo unicamente essere spettatori esterni.
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