

Si è conclusa la conferenza organizzata dall’Unione Europea sulla Garanzia Giovani a Roma. L’ennesima. Eppure nulla sta funzionando. Chiedetelo alle imprese e ai giovani, ve lo confermeranno, anche se ai convegni non vengono invitati. La sensazione è che si parli troppo di loro, ma troppo poco con loro. Procediamo con ordine.
POCHE RISORSE. Per prima cosa le risorse. Sul piatto ci sono 1,5 miliardi di euro da investire per rafforzare l’occupabilità dei giovani italiani. Ma sembra che tutto sia fermo, che le risorse siano chiuse in un cassetto. La cifra in sé è considerevole, ma se pensiamo ai costi indiretti dei cosiddetti Neet, i giovani che non lavorano né studiano, si tratta di poca cosa. Secondo le stime di Eurofound i costi che il nostro Paese sostiene ogni anno per la mancata inclusione dei Neet ammontano all’1,7 per cento del Pil, che è pari a 26,327 miliardi di euro. Si tratta del prezzo più alto pagato in Europa.
Il fatto che le risorse a disposizione siano relativamente scarse è solo una parte del problema. Il punto è che gran parte di queste non sono nemmeno disponibili e che quelle disponibili sono state male allocate. In molti casi, per esempio, lo stanziamento delle risorse è stato solo “programmato”: la conseguenza è che le Regioni, non avendone disponibilità immediata, non avviano, o avviano solo in parte, le attività previste dai piani di attuazione. Come evidenzia il grafico qui sotto:
SOLO STAGE E POCO PIÙ. Un’analisi della ripartizione delle risorse tra le diverse misure previste dal Piano nazionale (rappresentata dalla torta qui sotto) evidenzia, inoltre, come la distribuzione operata non sia in linea con le indicazioni e gli obiettivi comunitari. Nel complesso le misure sulle quali si è investito di più sono i tirocini (a cui è stato destinato il 21,3 per cento delle risorse complessive) e la formazione (su cui si è investito il 20,3 per cento delle stesse). Entrambe misure che non sono oggi operative nel nostro Paese. Per quanto riguarda i tirocini, infatti, le risorse, sebbene sulla carta siano disponili, sono al momento bloccate, perché continua a mancare un passaggio burocratico tra le Regioni e l’Inps che impedisce alle imprese di poterne fruire immediatamente.
Anche per quanto riguarda la formazione si registra uno stallo. La maggior parte delle Regioni non ha avviato alcuna iniziativa di questo tipo specificamente collegata agli obiettivi di Garanzia Giovani. Quelle più virtuose hanno adottato i bandi e hanno chiuso le prime procedure di aggiudicazione, ma anche qui nulla è operativo. Il rischio è che laddove le Regioni prevedano una remunerazione a processo e non sia prevista una programmazione dell’offerta formativa coerente ai fabbisogni occupazionali, questi corsi non abbiano l’effetto di aumentare l’occupabilità dei ragazzi e si traducano quindi in uno spreco di risorse pubbliche.
CHI INCROCIA DOMANDA E OFFERTA? Non si registrano risultati migliori nemmeno con riguardo alle altre misure su cui si è scelto di investire. Il 14,7 per cento delle risorse, è stata destinata all’accompagnamento al lavoro, ossia a quel complesso di attività poste in essere dai servizi per il lavoro e funzionali a favorire l’occupabilità dei ragazzi. Anche qui il rischio di black out è elevato soprattutto in quelle Regioni dove ancora oggi manca un sistema di accreditamento capace di garantire una reale cooperazione tra pubblico e privato. Se manca una rete funzionante e cooperativa di servizi per il lavoro operativa è difficile immaginare che queste risorse vengano spese con profitto e sostengano un accompagnamento al lavoro che sia effettivo e non artificiale. Va a questo proposito segnalato che in molte Regioni sono presenti meccanismi che impediscono l’incontro diretto tra domanda e offerta, imponendo alle aziende per godere degli incentivi di passare attraverso gli intermediari che in questo modo beneficiano di un bonus per un’intermediazione che di fatto non hanno realizzato dove l’incontro tra domanda e offerta si sarebbe comunque realizzato a prescindere dal loro intervento.
CONTRADDIZIONI. Veniamo al bonus occupazionale, cui sono state destinate il 13,5 per cento delle risorse disponibili. Gli incentivi per le assunzioni collegate alla Garanzia Giovani sono appena divenuti operativi, ma i dubbi sulla capacità di poter influenzare sul serio con simili misure le decisioni di assumere delle imprese, sono ben più d’uno. Si tratta, infatti, di incentivi meno vantaggiosi di altri già esistenti (per esempio, il Bonus Letta, come già spiegato qui da tempi.it), non cumulabili ad altri di nuova introduzione (come gli incentivi introdotti dalla legge di stabilità) e, pertanto, destinati a raggiungere solo alcune tipologie contrattuali con forti differenze da Regione a Regione. La Valle d’Aosta, la Campania e il Piemonte, per esempio, non prevedono alcun tipo di incentivo; mentre in Emilia Romagna, in Friuli-Venezia Giulia e in Puglia l’incentivo spetta solo per le assunzioni a tempo indeterminato.
SCORDATEVI L’APPRENDISTATO. Poco o nulla è, invece, destinato al sostegno dell’apprendistato: solo il 4,5 per cento delle risorse complessive. La Lombardia ne ha impiegate una parte con la Dote Unica Lavoro, mentre alcune Regioni, come il Piemonte, il Veneto, la Liguria, la Sardegna e l’Umbria, hanno deciso di non investire alcuna risorsa su questa misura. Piuttosto eloquenti, in questo senso, sono i due grafici qui sotto
Non stupisce, pertanto, che la Provincia di Trento sia tra le aree territoriali che hanno di più creduto nell’apprendistato, vedendo in essa la vera Garanzia Giovani, il vero strumento attraverso il quale realizzare il placement dei ragazzi e così gli obiettivi della Garanzia. E non è certo un caso che si tratti di un territorio con tassi di disoccupazione e Neet ben al di sotto della media nazionale.
UNA SOLUZIONE CI SAREBBE. Non c’è bisogno, dunque, di organizzare conferenze paneuropee per capire che la strada per aiutare i giovani a trovare un lavoro è l’apprendistato. Ma è sufficiente osservare la cartina dell’Europa qui sotto per capire dove le cose funzionano e dove invece no.
I tassi più bassi di Neet si registrano in Germania, Austria, Paesi Bassi, Lussemburgo, Svezia e Finlandia. La ricetta magica, è evidente, non esiste, né esistono modelli replicabili, ma esiste un quadro di principi che deve orientare le azioni, non tanto sul piano normativo, quanto su quello culturale. Questi Paesi, infatti, non hanno posto in essere riforme epocali del lavoro, flessibilizzato i rapporti e liberalizzato i licenziamenti; niente di tutto ciò. Hanno semplicemente agito sulla struttura e l’infrastruttura del mercato del lavoro, facendola funzionare meglio e coinvolgendo nella sua governance a diversi livelli, le parti sociali, gli operatori privati, gli imprenditori, le istituzioni territoriali, le scuole e le università, utilizzando l’apprendistato come leva di placement e politica attiva.
ASCOLTIAMO I GIOVANI. Occorre ripartire da qui, dai fatti e dai risultati, per dare ai ragazzi e al tessuto produttivo del nostro Paese le chiavi per un futuro migliore, da progettare e costruire insieme. Se non ascoltiamo le loro voci e non li coinvolgiamo nei processi decisionali che li riguardano, perderemo una volta per tutte. Perché non è detto che i giovani abbiano sempre ragione, ma è anche vero che la società che decide di ignorarli, li emargina e avrà sempre torto.
Giulia Rosolen è responsabile area Formazione Adapt
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Lavorando si impara e bisogna imparare se si vuole lavorare.
Il dilemma è capire come si può mettere un giovane nelle condizioni di imparare.
Non penso che è l’Italia che ancora non crede nell’apprendistato.
Stiamo parlando della stessa Italia che, nel passato, utilizzando la Legge 25/1955 sull’apprendistato, ha formato tantissimi giovani che a loro volta sono diventati operai specializzati, artigiani e imprenditori.
Bisogna chiedersi il perché oggi le aziende stentano ad utilizzare l’istituto dell’apprendistato.
E’ ovvio che la risposta non è semplice. Ma a parte la crisi dei consumi, che ha ridotto notevolmente la domanda di lavoro, c’è qualcos’altro che impedisce alle aziende di ricorrere all’istituto dell’apprendistato. Forse sarà perché l’apprendistato del passato è stata una strada in discesa, dove la formazione poteva avvenire semplicemente affiancando un giovane ad un tutore aziendale esperto. Oggi invece l’apprendistato, così com’è strutturato, per le aziende rappresenta una strada in salita. Bisogna fare in modo che la strada, se non è possibile farla in discesa, sia una strada magari piana e facile da percorrere.
All’azienda forse si dovrebbe chiedere di formare un giovane solo per quanto concerne la formazione tecnico professionale e lasciando invece che, a quella trasversale ( che dovrebbe essere fatta non durante un rapporto di lavoro ma nei vari percorsi di studio e /o di formazione), ci pensassero gli Enti d’istruzione e/o di formazione professionale.
Tanti anni addietro, in molte aziende esisteva la figura del “Garzone di bottega” che consentiva ai ragazzi, durante l’estate, di fare le loro prime esperienze in un contesto lavorativo. Esperienza che anche lo scrivente ha avuto modo di fare. Si andava nella bottega tutti i giorni della settimana, sabato compreso, fino a sera. Naturalmente, tutto questo senza prendere paga ma solo qualche soldo scaturito dalle mance della clientela.
In Svizzera, per i giovani studenti, sono previsti momenti d’alternanza tra scuola e aziende durante
l’anno scolastico. Alla fine del percorso di studi, quasi sempre, le aziende assumono gli stessi studenti che hanno avuto come stagisti e che hanno formato in base alle loro esigenze senza vincolo alcuno. Naturalmente i momenti di alternanza scuola/lavoro sono a totale carico dello stato. Quando l’azienda va ad assumere il giovane non è costretta ad inviarlo di nuovo a percorsi per l’acquisizione di competenze trasversali.
C’è chi sostiene che nel mercato del lavoro italiano esistono tante opportunità che i giovani non riescono a cogliere oppure, che il mercato richiede conoscenze e competenze che questi non hanno.
Considerati i dati sulla disoccupazione giovanile italiana (oltre il 40%) e considerato inoltre che mercati del lavoro non nazionali riescono ad assorbire alcuni dei nostri giovani, viene da pensare che forse, se il lavoro manca, nel nostro mercato, non tutte le colpe sono da attribuire ai giovani e alla loro mancata formazione.