«Per francesi e tedeschi l’Ue è solo un mezzo per vincere le elezioni»

Di Benedetta Frigerio
15 Novembre 2011
Il parlamentare europeo Mario Mauro spiega a Tempi.it le radici della crisi dell'Europa, la differenza profonda tra ciò che è ora e quello che doveva essere e come potrebbe trasformarsi in futuro

On. Mario Mauro, lei è al Parlamento europeo dal 1999. Secondo i suoi padri fondatori, l’Europa non poteva essere un’alleanza puramente economica. Robert Schuman disse: «Bisogna rendersi conto che l’Europa non può limitarsi, alla lunga, a una struttura meramente economica». E mise in guardia dagli «eccessi di burocrazia e dalla tecnocrazia». Su che cosa doveva fondarsi l’Ue per i padri fondatori?
Il contesto in cui il progetto europeo nasce è un’Europa distrutta dalle ideologie. Perciò, si cercò un’impostazione pragmatica che preferì partire da un’unione economica per giungere all’unità politica. Infatti, siamo partiti dal carbone e dall’acciaio (Ceca, Comunità economica del carbone e dell’acciaio), ossia dalle materie prime che avevano diviso Francia e Germania. Il pragmatismo sembrava l’antidoto all’ideologia non solo di stampo totalitario ma anche ai nazionalismi. Questo approccio però da solo non può bastare e oggi si vede. Ma è anche vero che bisogna riconoscere che la pace e lo sviluppo di cui l’Europa ha goduto per cinquant’anni sono un’eccezione positiva nella sua storia.

Una pace che nasconde però molti problemi: un relativismo etico che toglie energia ai popoli e alle sue istituzioni, e la vittoria degli interessi degli Stati più forti a discapito dei più deboli.
Un problema c’è, è evidente, insieme a una debolezza, la mancanza di identità e di valori condivisi, di cui il deficit democratico è la prima conseguenza. Infatti, a parte il Parlamento europeo, le altre istituzioni sono frutto di una cooperazione (metodo intergovernativo) e assumono poteri sempre più forti senza controllo elettorale. Le istituzioni europee sono composte da persone, di cui si sa poco o nulla, elette dai governi senza rispondere a nessuno. Questa struttura tecnocratica è il vero dramma. L’altro fatto storico che ha ostacolato la via federale, e di cui nessuno parla rispetto al fenomeno europeo, è il cortocircuito innestatosi nel 1989: il risultato positivo epocale della riunificazione dell’Est europeo è accompagnato da un’anomalia. Non dimentichiamo che in una sola notte i principali partiti comunisti, sia dell’Est che dell’Ovest, prima ferocemente anti-europeisti, si convertirono. Se prima concepivano l’Europa unita in opposizione al Patto di Varsavia, dopo il 1969 la appoggiarono, ma in modo curioso: non avevano l’obiettivo di fare di essa gli Stati Uniti d’Europa, ma una unione delle repubbliche socialiste. Cioè non una unione politica capace di valorizzare le differenze ma omologante. Questo è l’approccio che oggi va per la maggiore e che ha fatto gridare Bossi al rischio del super-Stato.

Se il francese Schuman e il tedesco Adenauer cercavano nell’Europa unita un’unione ideale, poi la Francia e la Germania la usarono diversamente. Già nel 1962 De Gaulle disse: «L’Europa è il mezzo con cui la Francia cerca di diventare ciò che aveva cessato di essere dopo Waterloo: il paese guida del mondo». I tedeschi parlarono invece dell’Europa come mezzo per patteggiare con la Francia. Come mai questo tradimento rispetto all’idea dei padri?

I padri fondatori erano uniti dall’amicizia cristiana: solo questo poteva farli partire da aspetti pragmatici: per loro la base ideale c’era già. Era scontata, infatti sapevano che un’identità comune era l’unico modo per sostenere davvero un progetto politico federale.

Per altri evidentemente non era così scontato.

Diciamo che in tanti osteggiarono il progetto dei padri. Fu così sin dall’inizio: De Gaulle ha rifiutato la Comunità europea di difesa (Ced) perché avrebbe creato un vincolo politico fra tutti gli Stati dell’Unione. Ricordiamo poi che la prima vera sciagura fu la non rielezione di Winston Churchill, europeista convinto. L’ultimo ostacolo a una vera leadership europeista è stato l’allontanamento di Helmut Kohl.

Francia e Germania usano ancora l’Europa, come allora, per fare i loro interessi?
La loro visione di allora e di oggi è racchiusa in una lettera di De Gasperi: gli statisti, scrisse, sono quelli che pensano alle generazioni successive, i politici a vincere le elezioni. Dopo Kohl, Germania e Francia non hanno più pensato all’Europa come contributo da offrire a una generazione, ma come strumento per vincere le proprie elezioni.

In questi giorni si parla di deficit democratico italiano. Ma non è in realtà l’Europa ad avere questo problema?
E’ dall’inizio del mio mandato che lo ripeto. Il nazionalismo degli Stati ha incrementato il deficit. Molti pensano che il problema sia battere i pugni sul tavolo per ottenere qualcosa dall’Unione ma questa modalità non fa che peggiorare le cose: va contro il bene comune europeo e quindi del nostro paese. Litigare sui piccoli interessi per salvaguardare la nostra sovranità, senza spingere per un’Europa realmente democratica, ci vede ora costretti a rispondere al potere di altri più forti. Insomma, perdiamo la sovranità nazionale che abbiamo cercato di difendere in malo modo. E subiamo una coalizione franco-tedesca che fa i suoi interessi, tant’è che nel sentire comune l’Europa è vista come un problema. E se è vero che l’Italia sta subendo una crisi di credibilità, quella dell’Unione è 100 volte peggio. Gli Stati Uniti e altri attori internazionali che determinano il mercato sono insofferenti nei riguardi dei nostri problemi e parlano di “Vecchia Europa” e di un’economia malata. E noi anziché ripensare alle fondamenta, pensiamo ad accaparrarci quel che resta del palazzo senza chiederci se reggerà.

L’Europa federale non è una chimera anacronistica?
La crisi è economica e finanziaria, ma come il Papa ricorda è anche antropologica, quindi istituzionale. Cioè: l’Unione Europea non basta a trovare una via d’uscita, ci vogliono gli Stati Uniti d’Europa. Ci vuole una politica che governi l’economia e non viceversa. Occorre fare un lavoro certosino: che garantisca la presenza, a fianco della nascita dell’Euro, di una fiscalità comune. Bisogna utilizzare la Bce non solo per contenere l’inflazione ma per essere garante dei tentativi dei paesi membri di rispondere ai propri problemi economici. Perché questo sia possibile, ripeto, ci vogliono istituzioni e regole stabilite da persone elette democraticamente.

Solo la riscoperta delle radici cristiane, ha più volte sostenuto Marcello Pera, può permettere un processo davvero democratico dove si attui il bene comune e non l’interesse delle economie degli Stati più forti. E’ d’accordo?
Se è vero che le radici cristiane sono quelle che hanno fato nascere la democrazia, non basta nominarle. La democrazia risponde a un tessuto popolare europeo fatto di uomini autenticamente religiosi. Quindi il punto sono sì le radici cristiane, ma insieme la tutela degli ambiti in cui l’esperienza religiosa è vissuta realmente. Solo così può tornare a battere il cuore dell’esperienza europea. Per questo il rifiuto esplicito di Dio nella Costituzione è frutto di un autolesionismo ideologico che scambia la religiosità come nemica della democrazia. Quando i suoi vantaggi per il bene comune sono l’unica risorsa che ci resta. E questo è sotto gli occhi di tutti. Basti pensare al respiro in termini di democrazia e sviluppo che hanno dato le parole del Papa al laicissimo Bundestag.

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