Il film sul processo al dottor Gosnell, il serial killer dell’aborto (cioè «un sicario»)
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Bella coincidenza. Proprio nei giorni in cui mezzo mondo provava a riprendersi dal turbamento suscitato dal “giudizio shock” di papa Francesco sull’aborto, che è «come affittare un sicario per risolvere un problema» – e allora vai con Repubblica che cede il pulpito all’ultimo ginecologo abortista rimasto in Molise affinché dica al Papa di «non giudicare e di avere compassione» perché anche «tante donne cattoliche arrivano nel mio reparto» e «entrano in sala operatoria facendosi il segno della croce» –, ecco, in giorni come questi usciva nei cinema degli Stati Uniti un film intitolato Gosnell. The Trial of America’s Biggest Serial Killer. Ossia “Gosnell. Il processo al più grande serial killer d’America”. Volendo anche: il più grande sicario d’America. Bella coincidenza.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Prima di parlare del film, che abbiamo visto, serve un inciso. Il dottor Michele Mariano, l’ultimo dei molisani non obiettori di cui sopra, nell’intervista a Repubblica dice che gli tocca fare «da solo 400 aborti l’anno. Ogni giorno, senza tregua, senza ferie». Il medico un po’ si lamenta e un po’ si inorgoglisce, perché l’aborto «è la mia trincea». E però, ammette, «sono stanchissimo, ma non mollo». Perché non molla? Attenzione alla battuta adesso: «Come faccio? Dove finiranno le donne quando i ginecologi della mia generazione andranno in pensione, visto che i giovani sono tutti obiettori?». Ripetiamo di nuovo in modo che l’affermazione non sfugga all’occhio valorizzatore di Repubblica, sempre così attento allo spirito del tempo: «I giovani sono tutti obiettori». Volendo sperare che questo non sia l’unico caso in cui “i giovani sono più indietro di noi” (sarebbe un po’ alienante leggerlo su Repubblica), significa che forse è giunto il momento di accettare il fatto: “i tempi sono cambiati”, come si suol dire, e non sempre cambiano come vuole il mainstream.
CONTROCORRENTE
A proposito di segni dei tempi, il primo aspetto notevole di Gosnell è che il film sia riuscito a vedere la luce e perfino a ottenere qualche titolo sui grandi giornali nonostante abbiano tentato in vari modi di sabotare il progetto o quanto meno di mettergli la sordina. I produttori sono perfino riusciti a raccogliere online 2,3 milioni di dollari da 300 mila donatori, sebbene inizialmente pure le piattaforme di crowdfunding, simbolo della (presunta) libertà del web, avessero fatto storie per via della (sempre presunta) impresentabilità dell’iniziativa.
Il secondo aspetto notevole è che solo nel primo weekend dopo l’uscita nei cinema americani (12 ottobre), ha già incassato 1,2 milioni di dollari. Nonostante quanto sopra.
La vicenda del film è in gran parte nota ai lettori di Tempi. Si comincia dal blitz delle forze dell’ordine che nel 2010, seguendo le tracce di un presunto traffico illegale di sostanze, scoperchiò casualmente le pratiche abominevoli che si svolgevano nella massima tranquillità, quasi alla luce del sole, ma nello squallore e nella sporcizia più totali, all’interno della clinica del dottor Kermit Gosnell a Philadelphia. La trama ripercorre fedelmente l’indagine e il processo che seguirono, fino al 13 maggio 2013, quando Gosnell fu condannato al carcere a vita per l’omicidio colposo di una donna e per tre omicidi di bambini nati vivi nella struttura. Ma chissà quanti altri ce ne sono stati, perché il processo si è basato solo su quanto è stato possibile ricostruire rimettendo assieme la membra dei cadaverini ritrovati dalla polizia in ogni angolo di quella macelleria, abbandonati a marcire in decine di sacchi, barattoli, perfino cartoni del latte e ciotole per i gatti che infestavano la struttura. Nonostante qualche guaio precedente per malasanità, Gosnell era andato avanti per trent’anni a fare quello che faceva là dentro.
«Come il film “Spotlight”, che ha raccontato gli insabbiamenti istituzionali nella Chiesa cattolica, “Gosnell” parla degli abusi delle istituzioni e delle norme, abusi davanti ai quali in troppi hanno chiuso un occhio per troppo tempo.
I titoli più importanti quando scoppiò questo caso non riguardavano gli orrendi crimini di Gosnell. Riguardavano la vicenda di una foto scattata da un giornalista locale nell’aula del tribunale alle file e file di posti vuoti riservati alla stampa, che all’inizio del processo non si fece vedere. Come in “Spotlight”, ci è voluta una giornalista coraggiosa, la commentatrice Kirsten Powers, per portare la storia sulla ribalta nazionale e chiamare in causa le altre testate (alcune delle quali in seguito si sono scusate)».
Karen Swallow Prior, Washington Post
IL CORAGGIO DI VEDERE
Il film, anche per via del budget limitato, non ha sicuramente l’obiettivo dell’Oscar e non è capolavoro dal punto di vista tecnico e artistico, anche se viaggia molto, incommensurabilmente al di sopra di tanti film “a tesi” prodotti negli ultimi anni. Ha comunque il grande merito di rinunciare alle prediche per attenersi ai fatti: molta sceneggiatura è presa di peso da verbali di tribunale, interrogatori della polizia, racconti di testimoni oculari. Forse anche per questo a tratti risulta impressionante, pur evitando volutamente il richiamo truculento, su cui sarebbe stato facile giocare visto l’argomento. La durezza è più nelle suggestioni che nelle immagini: per dare un brivido o una lacrima, certe cose basta chiamarle con il loro nome, come sanno bene quelli che hanno ribattezzato l’aborto “salute riproduttiva” o “diritto di scelta”.
Curiosamente, però, pur non essendo visivamente esplicito, Gosnell è proprio un film sul coraggio di guardare la realtà e riconoscerla per quel che è, contro la pigrizia di chi preferisce non vedere per non dover sconvolgere i propri preconcetti. L’elemento che convincerà la giuria del processo a condannare il ginecologo macellaio è una fotografia che lo spettatore non vedrà mai. E che però non riuscirà a togliersi dalla testa, dopo aver sentito i testimoni raccontare di come Gosnell risolveva il “guaio” dei bambini nati vivi: incidendoli con le forbici dietro la nuca.
FETI E BAMBINI
Emblematica l’obiezione che si sente rivolgere più volte la procuratrice nel corso dell’indagine. «Ma tu non eri pro choice?». Come dire: vorrai mica lasciarti scalfire dalla realtà. Quasi tutti hanno un moto di resistenza, davanti all’insistenza del piccolo pool di inquirenti che vuole trascinare Gosnell in tribunale, prove schiaccianti alla mano. Tutti pronti a voltarsi dall’altra parte, a chiudere di nuovo gli occhi «purché non si mettano in discussione i diritti delle donne», come precisa il giudice prima di acconsentire a dare il via al procedimento. Tutti infatti sanno benissimo che il processo a Gosnell sarà un processo all’aborto, pur dicendo il contrario. In fin dei conti, quello faceva Gosnell: uccideva. Sì, il medico ignorava spudoratamente le leggi che regolano l’interruzione di gravidanza in Pennsylvania (leggi scritte «per fini politici» dai «nemici dell’aborto» per «creare barriere tra le donne e i miei servizi», si giustifica lui davanti ai suoi legali), Gosnell se ne fregava degli standard sanitari ed è questo che lo ha portato alla sbarra. La sostanza però non cambia e non riguarda solo Gosnell il criminale. Sotto sotto i personaggi del film lo sanno tutti, anche se preferirebbero non essere costretti a vedere in tribunale: nell’aborto ci vanno di mezzo i bambini. «Vuoi dire feti?», domanda a un certo punto la procuratrice al poliziotto appena uscito dal mattatoio di Gosnell. «A me sembrano bambini», risponde lui. Decisamente non si può processare uno come Gosnell senza processare l’aborto. (Ma tu non eri pro choice?)
UN BUCO NELLA NUCA
C’è una scena del processo, forse la più riuscita di tutto il film, che squaderna in modo definitivo quella contraddizione che la “civiltà dell’aborto” ha cercato fino a questo momento di nascondere a se stessa e al mondo, oltre che alla giustizia.
Entra in aula una bella signora tutta composta, curata e sorridente come una rappresentante di cosmetici. È un medico, la dottoressa North, ed è per così dire una concorrente di Gosnell. Non vede l’ora di poter testimoniare che noi della nobile industria della “salute femminile” non siamo come quell’uomo. Noi rispettiamo i più alti standard igienici, non impieghiamo gli strumenti monouso più di una volta, non abbiamo le camere per le donne bianche divise da quelle per le nere (il medico afroamericano Gosnell invece le aveva). Noi non facciamo aborti a nascita parziale. Soprattutto noi mai incideremmo il collo a un bambino nato vivo per sbaglio, e ci mancherebbe.
Ed ecco che interviene l’avvocato di Gosnell, un genio cinico, il quale costringe la venditrice di diritti a raccontare per filo e per segno come si “interrompe una gravidanza” senza commettere un omicidio. Così davanti agli occhi della giuria, passano in rassegna, anche fisicamente, il tipico siringone utilizzato nelle cliniche abortive per iniettare il cloruro di potassio nel cuore del feto, il forcipe per estrarre il corpo morto, eccetera. A questo punto la dottoressa impomatata sorride già molto meno di prima, ma il legale di Gosnell incalza. Chiede lumi riguardo alla procedura che va seguita nei casi in cui il feto sia particolarmente grande, come era capitato negli omicidi imputati a Gosnell. In quei casi, spiega la signora, si procede con un macchinario ad «aspirare la materia grigia». «La materia grigia… Ah, il cervello. Gli aspirate il cervello», chiosa l’avvocato. «E dopo?». Dopo di che il cranio collassa e il feto può essere rimosso, spiega la North.
Ed è vero, continua il legale, che quando il cranio è troppo grande per il macchinario, dovete incidere un buco nella nuca al feto?
Sì ma noi prima non lo facciamo nascere, replica la donna, che ormai è finita nello stesso angolo di Gosnell ed è in palese difficoltà.
Insiste il legale: e se uno di questi grossi feti nascesse vivo, come è capitato al mio assistito, voi che cosa fareste?
Beh, allora gli somministreremmo il comfort care.
Può definire il comfort care?
Si tratta di tenere il feto al caldo e comodo, fino al decesso.
Fino al decesso… In sostanza lo lasciate morire. Sembra quasi più umano usare un paio di forbici.
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