
Fare affari con Maometto

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – L’obiettivo è far decollare la finanza islamica in Italia, come già accaduto negli ultimi anni in Gran Bretagna e in alcuni paesi nord europei, compresa la Germania. Emettere un’obbligazione (sukuk), contrarre un mutuo (murabaha), fare contratti di leasing finanziari e operativi (ljarah e istisna’a) sarà possibile anche nel nostro paese se il Parlamento approverà la proposta di legge avanzata nei giorni scorsi alla Camera dal deputato di area popolare Maurizio Bernardo (nonché presidente Commissione finanze) con il supporto tecnico dello studio Loconte di Milano.
La proposta si chiama “Disposizioni relative al trattamento fiscale in merito alle operazioni di finanza islamica” ed è impostata come uno strumento per consentire operazioni finanziarie che altrimenti non sarebbero possibili a causa dell’obbligo della doppia tassazione. In altre parole, si tratterebbe di allineare l’imposizione tributaria sui nuovi prodotti che osservano i princìpi della sharia, che, tanto per fare un esempio, vieta di investire in aziende che producono alcolici, a quelli di tipo tradizionale, cioè mutui, titoli di stato e obbligazioni che sono disciplinati dal nostro ordinamento. In realtà, se il disegno dovesse trasformarsi in legge, si aprirebbe la strada a una vera rivoluzione che avrà effetti sul mercato ma anche conseguenze di tipo sociale ed economico.
Sono decine di migliaia le famiglie di fede islamica che risiedono stabilmente in Italia (si calcola che esprimano una ricchezza potenziale in termini di risparmio pari a 6-7 miliardi di euro) alle quali oggi è di fatto impedito di realizzare una qualsiasi forma di investimento che sia conforme ai princìpi della propria religione. È chiaro che rappresentano un target di clientela appetibile sia per gli intermediari finanziari che già operano in Italia (soprattutto grandi banche e società di risparmio gestito che nei loro fondi d’investimento potrebbero aprire le cosiddette “islamic window”) sia per i fondi sovrani che da anni attendono che in Italia passi una legge sulla finanza islamica.
Antiriciclaggio e terrorismo
Ma veniamo alle obiezioni che una tale proposta finirà inevitabilmente con il sollevare dentro e fuori le aule parlamentari. Una su tutte: come la mettiamo con il timore (potrebbe anche non essere ingiustificato di questi tempi) che con i proventi di operazioni legate alla finanza islamica si vada a finanziare il terrorismo religioso? Va ricordato che gli intermediari islamici sono obbligati a versare la zakat (la tassa per il culto) e non si può escludere che una parte dei soldi finiscano nei canali di sostegno al jihad (il tema si è già posto in vari paesi).
Interpellato da Tempi, Bernardo, al quale non fanno difetto pragmatismo e capacità di cogliere opportunità che stimolano la crescita economica (sua è anche la proposta di legge speciale per Milano capitale della finanza), spiega: «Abbiamo pensato di far recepire all’ordinamento giuridico italiano operazioni che possono attrarre capitali ingenti che altrimenti transiterebbero altrove». Realpolitik, insomma. E aggiunge: «Ci si è anche posti il problema dei controlli che abbiamo pensato di risolvere sottoponendo tutte queste nuove operazioni a una procedura rafforzata di verifica in base alla normativa europea in materia di antiriciclaggio e anti terrorismo». In pratica, i nuovi prodotti di finanza islamica verrebbero monitorati dall’Uif, l’ufficio della Banca d’Italia responsabile dell’applicazione del decreto legislativo 231 del 2007 in materia di finanziamento di attività criminose e di terrorismo.
La strada, seppure in salita, sembra ormai tracciata poiché è inevitabile che prima o poi venga disciplinata una materia che coinvolge migliaia di cittadini stranieri e, per di più, rappresenta un’occasione di business per banche e società finanziarie. Il giro d’affari che ruota intorno alla finanza islamica è stimato in circa 2 mila miliardi di euro (dato del 2015) con tassi di crescita annui a doppia cifra (senza contare l’apporto del microcredito e dell’hawala, cioè finanziamenti di tipo bancario). Il primo paese ad aprire qualche anno fa all’emissione di sukuk (veri titoli di debito, possono essere emessi da aziende oppure da stati; si distinguono dalle obbligazioni tradizionali perché consentono all’investitore di condividere il rischio imprenditoriale del debitore) è stato la Gran Bretagna, che ha generato un mercato stimato già in diversi miliardi di sterline. Come rinunciare a tutto ciò?
Foto Ansa
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