Denuncia le fake news di Black Lives Matter, giornalista licenziato da Reuters
C’è un feticcio giornalistico che va per la maggiore negli ultimi anni, quelli della post-verità (parola dell’anno 2016) e delle fake news (parola dell’anno 2017), ed è il data journalism. Esiste da diverso tempo, soprattutto nel mondo anglosassone, ma ha trovato fortuna soprattutto ultimamente. L’esplosione di internet, il fenomeno degli open data, la specializzazione di tanti giornalisti hanno fatto sì che il giornalismo fatto con i dati sia usato per mettere quasi sempre l’ultima parola su vicende, storie ed eventi raccontati.
«Lo dicono i dati» è la frase standard con cui ogni “esperto” che si rispetti mette a tacere opinioni che si basano sul sentito dire, su impressioni o pregiudizi. In quasi tutte le redazioni c’è un redattore che si occupa di dati, e questo giornalismo è presentato come quello più oggettivo e vicino alla verità. I fact-checkers, quelli che si occupano di verificare se una notizia che circola è vera, basano gran parte del proprio lavoro sull’analisi dei dati. Si usano i dati per tutto, si tratti di dimostrare l’efficacia dei vaccini o di calcolare le possibilità di fare gol per Vlahovic con il gioco di Allegri. Nel giornalismo contemporaneo le uniche opinioni che valgono sono quelle che partono dai dati, il resto è cialtroneria, populismo, fake news.
Cosa dicono i dati sui neri uccisi dalla polizia in America
Fino a poco tempo fa Zac Kriegman era il responsabile dei dati della Thomson Reuters, agenzia giornalistica tra le più famose al mondo. Il suo compito, in una testata che è orgogliosa della propria oggettività nel dare le notizie, era vagliare tonnellate di numeri e capire che cosa significassero. Un anno fa Kriegman ha iniziato ad analizzare i dati su una delle storie che più hanno colpito l’opinione pubblica americana e mondiale, per cui ancora oggi si abbattono statue nel silenzio delle istituzioni e ci si inginocchia prima delle partite: i neri americani uccisi a colpi di arma da fuoco in tutto il paese. «Abbiamo parlato senza sosta di razza e brutalità della polizia», racconta Kriegman su Common Sense, «e ho pensato: questa è una storia che potrebbe salvare vite umane. Questa è una storia che va raccontata».
Zac ha studiato a fondo i numeri, soffermandosi anche sul modo con cui i media denunciano quel tipo di violenza, e ha presentato la sua storia ai colleghi di Reuters. Quando lo ha fatto, il suo capo lo ha rimproverato, dicendogli chiaramente che quel tipo di opinione gli avrebbe impedito di fare carriera. Poi i suoi colleghi hanno iniziato a diffamarlo e attaccarlo pubblicamente. Poi è stato licenziato. «Nel 2020 ho iniziato ad assistere alla diffusione di una nuova ideologia all’interno dell’azienda. Sulla nostra piattaforma di collaborazione interna, l’Hub, la gente pubblicava post su “le lacrime autoindulgenti delle donne bianche” e i pericoli del “Privilegio Bianco”. Condividevano articoli con titoli come “Seeing White”, “Habits of Whiteness” e “Come essere una persona bianca migliore”. C’era un supporto fervente e corale per Black Lives Matter a tutti i livelli dell’azienda».
La polizia spara molto più ai bianchi che ai neri
Kriegman seguiva da anni la ricerca accademica sul BLM, ed ero giunto alla conclusione che l’affermazione su cui si basava l’intero movimento – che la polizia spara più facilmente ai neri – era falsa. «I dati erano inequivocabili. E dimostravano, semmai, che la polizia era leggermente meno propensa a usare la forza letale contro i sospetti neri rispetto a quelli bianchi». I numeri portati dall’ex capo dei dati di Reuters sono impressionanti: negli ultimi cinque anni la polizia ha sparato al 39 per cento di bianchi disarmati in più rispetto ai neri. Come nella favola del lupo e dell’agnello di Fedro, gli attivisti BLM gli hanno risposto che «poiché ci sono circa sei volte più bianchi americani rispetto ai neri americani, quella cifra dovrebbe essere più vicina al 600 per cento».
Kriegman ha risposto con altre statistiche: «Secondo i calcoli basati sui dati dell’FBI, i neri americani rappresentano il 37 per cento di coloro che uccidono agenti di polizia e il 34 per cento dei sospetti disarmati uccisi dalla polizia. I bianchi costituiscono il 42,7 per cento degli assassini di poliziotti e il 42 per cento dei sospetti disarmati colpiti dalla polizia, il che significa che i bianchi vengono uccisi dalla polizia a un tasso del 7 per cento superiore rispetto ai neri. Se allarghi l’analisi per includere i sospetti armati, il divario è ancora più ampio, con i bianchi colpiti da armi da fuoco a un tasso superiore del 70 per cento rispetto ai neri. Altri esperti del settore concordano sul fatto che, in relazione al numero di agenti di polizia assassinati, ai bianchi si spara in modo sproporzionato».
Dettagli omessi per non rovinare la narrazione di BLM
Kriegman è rimasto in silenzio molti mesi, «continuavo a leggere i resoconti di Reuters sul movimento e ho iniziato a vedere come la visione del mondo fuorviante dell’azienda su polizia e razzismo stesse distorcendo il modo in cui riportavamo le notizie al pubblico». In molti reportage e servizi su sparatorie che coinvolgevano i neri, Reuters ometteva dolosamente i dettagli che avrebbero potuto incrinare la narrazione di Black Lives Matter. Zac si accorge che «più importante di un resoconto accurato era sostenere e coltivare, quella trama». Quando Donald Trump disse che erano più i bianchi dei neri a essere uccisi dalla polizia, Reuters bollò quelle dichiarazioni come fake news sostenendo il contrario, e diverse altre volte scrisse che i neri vengono uccisi di più. Eppure i dati, il vitello d’oro del giornalista contemporaneo, dicevano l’opposto.
Kriegman speiga bene l’impatto che questo modo di trattare il tema ha avuto sulla società americana. Non si tratta di dispute politiche e giornalistiche: «Tutto questo mi ha lasciato profondamente turbato: è stato un male per Reuters, che avrebbe dovuto essere obiettivo e trattenere il giudizio. È stato un male per i nostri lettori, che erano stati male informati. Ed è stato un male per i neri nei quartieri difficili, dove i funzionari locali, spinti ad agire da articoli come i nostri e dalla conseguente protesta pubblica, hanno iniziato a tagliare fondi alla polizia», facendo di conseguenza aumentare la criminalità e le morti tra le persone nere.
La censura, le minacce, il licenziamento
Kriegman sa che ne deve parlare, ma capisce che dire certe cose potrebbe rovinargli la carriera. Prende due mesi di congedo durante i quali continua a studiare numeri e statistiche. Scrive un lungo post pieno di dati, studi accurati, esempi, che smonta la narrazione mainstream dei neri perseguitati dalla polizia in America. Tornato al lavoro, lo pubblica sulla piattaforma interna di Reuters, l’Hub. Era maggio dello scorso anno. Dopo meno di due ore il suo post viene rimosso dai moderatori. A domanda, nessuno gli dice davvero perché. Dopo due settimane gli fanno sapere che il suo post è sotto revisione da parte di «un team di risorse umane e professionisti della comunicazione».
Kriegman chiede se può parlarne con i moderatori. Gli dicono di no, e che il suo articolo non verrà pubblicato perché considerato “ostile” e “provocatorio”. Inizia per Zac un vai e vieni kafkiano tra diversi uffici, capi che gli dicono che se continua così la sua carriera è a rischio, responsabili della Diversità e inclusione che non vogliono dirgli perché il suo post è stato cancellato e suggerimenti di cancellare i termini tipici del “razzismo sistemico” dal suo articolo. Solo a quel punto il suo post è stato ripubblicato. E sono cominciate le offese, gli insulti e le minacce da parte dei colleghi. Nessun dirigente lo ha difeso, poi l’ufficio Risorse umane ha nuovamente cancellato l’articolo e minacciato Kriegman di licenziamento.
«Stavo cercando di attirare l’attenzione dell’azienda su come stavamo diffondendo bugie che stavano contribuendo all’omicidio di migliaia di persone di colore, e sono stato paragonato a un simpatizzante del KKK e l’azienda mi ha proibito di discuterne. Quindi, ho inviato un’email ai colleghi e ai dirigenti dell’azienda, esprimendo ancora una volta preoccupazione per il modo in cui gli attacchi contro di me avevano interrotto con successo qualsiasi conversazione produttiva e lasciato la mia reputazione a brandelli. Il giorno successivo, le risorse umane mi hanno chiamato per dirmi che il mio accesso a tutti i sistemi informatici e di comunicazione aziendali era stato revocato. Tre giorni dopo, l’8 giugno 2021, sono stato licenziato».
Fermare l’assalto alla ragione
Presentando la storia di Zac Kriegman su Common Sense, Bari Weiss ha sottolineato la tendenza sempre più diffusa negli Stati Uniti di luoghi di lavoro che diventano ostili al pensiero indipendente apparentemente da un giorno all’altro. Kriegman è stato licenziato perché «pensava che la logica avrebbe vinto». Ma la logica non può vincere in un mondo in cui assistiamo quotidianamente ad un assalto alla ragione. Nel suo post pubblicato sull’Hub, Kriegman citava Roland Fryer. Economista di Harvard, nero, cresciuto povero e con un passato di scontri con la polizia, nel 2016 pubblicò – convinto di dare ragione alla narrativa di Black Lives Matter – uno studio dal quale emerse che neri e latini venivano uccisi meno dei bianchi dalla polizia. Nel 2018 Fryer è stato sospeso da Harvard dopo accuse dubbie di molestie sessuali.
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