
Fa’ che confondano sempre la giustizia con la legalità

Articolo tratto dal numero di luglio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Mio caro Malacoda, ti sei distratto un attimo e lasciati soli a sé stessi i magistrati italiani si son fatti prendere la mano e hanno gettato al vento il lavoro di decenni. Don Luigi Giussani diceva che «l’apparenza è vinta dall’evidenza». Ora è chiaro a tutti: l’apparenza della neutralità dei giudici (di Cesare, di sua moglie, dei suoi famigli, dei suoi congiunti, dei suoi sodali) è vinta dall’evidenza dei traffici di cui molti di loro, soprattutto ai vertici, sono stati protagonisti.
Sui giornali i cronisti – spesso gli stessi che beneficiavano delle soffiate sui suddetti traffici – si stracciano le vesti scandalizzati come se fosse una assoluta novità del terzo millennio. Invece è storia vecchia: «C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi di antico» direbbe Giovanni Pascoli. E non è una questione di incoerenza dei giudici, c’è in gioco il pensiero, l’idea di giustizia. Che è, o dovrebbe essere – dice Joseph Ratzinger –, lo scopo della politica. Ma forse intende qualcosa di diverso dalle pratiche di incrocio tra procure e partiti che stanno emergendo, dove non si sa più chi guida chi.
Quanto sia antico il problema l’ha sinteticamente raccontato un acuto professore – che non cito per non fargli pubblicità – in una per noi pericolosissima lezione davanti a centinaia di giovani. Ecco per sommi capi il suo excursus.
Ulpiano, un professore di diritto del terzo secolo d.C., nell’età dei Severi, definì la giustizia come la risposta a un’esigenza fondamentale della persona, «suum cuique tribuere», dare a ciascuno il suo. Venti secoli dopo Thomas Hobbes teorizzò che non esiste la giustizia, ma esistono degli interessi, quindi dei conflitti di interesse che hanno bisogno di un’istanza, il potere assoluto del sovrano, che li componga e senza la quale l’uomo diventa un lupo per l’altro uomo. Per Jean-Jacques Rousseau il cittadino, buono per natura ma corrotto dalla società, viene redento dalla politica assume quindi una funzione “redentiva”. Nel secolo scorso Hans Kelsen scrive che «la giustizia è un ideale irrazionale, in altri termini una illusione, una delle eterne illusioni dell’umanità, esistendo soltanto interessi degli esseri umani, dunque conflitti di interesse».
Io non so, non credo, che Palamara & Co agissero in conseguenza di questo convincimento filosofico, però possiamo dire che hanno offerto esemplare concretezza dell’assunto «esistono soltanto interessi».
Il trucco è semplice e propone un’illusione, un surrogato della realtà. Il surrogato oggi propinato al volgo è la riduzione della giustizia alla sola legalità, cioè a quello che il potere di turno ritiene giusto, per cui ciò che non era reato un tempo lo diventa oggi, e viceversa. Legalità è sottoporre la giustizia al potere. Un altro surrogato è la riduzione della giustizia alla sola giurisprudenza, via ampiamente praticata che rende il giudice più che il legislatore il vero protagonista di una vita pubblica sempre più confusa nei suoi princìpi e nella sua prassi ma che continuiamo a chiamare democrazia.
Senza voler fare paragoni, ché la Seconda Repubblica non è certo la Roma imperiale, ma già sant’Agostino in piena crisi dell’impero diceva che «se togli il diritto che cosa distingue lo Stato da una grande banda di ladroni?». Il solito cattolico integralista, estremista ed eccessivo? Mi piacerebbe liquidarlo così, poi ti citano William Shakespeare (atto quarto del Re Lear) e ti chiudono la bocca: «Un uomo può vedere benissimo come va il mondo, anche senz’occhi. Guarda come quel giudice inveisce contro quel povero ladro; presta l’orecchio, scambiali di posto, oplà, e indovina alla cieca: chi è il giudice, chi è il ladro?».
A chi insiste sul retaggio cattolico di tal convincimento – perché il sospetto di un Bardo cristiano non è mai stato fugato – l’anonimo professore di cui sopra oppone allora Jürgen Habermas: nel determinare le grandi scelte della politica (che hanno a che fare con cosa sia giusto e cosa no) non bastano le maggioranze, non bastano le procedure, occorre riappropriarsi di «un processo argomentativo sensibile alla verità». Non basta neanche Habermas (anche lui in fondo si è sporcato la fedina intellettuale dialogando con Ratzinger)? Ecco l’ateo e positivista Pietro Rossi: «Non esiste nessuna istanza metafisica, eppure mi ripugna considerare il nulla come il comune destino del carnefice e della vittima».
Sulla giustizia c’è un nucleo inamovibile che periodicamente torna a galla, ma non ti preoccupare nipote, sono già tutti gattopardianamente al lavoro, avrai notato anche tu che sull’affaire Palamara-Csm nessuno ha ancora scritto: “Niente sarà più come prima”.
Tuo affezionatissimo zio
Berlicche
Foto Ansa
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