Expo 2030 e il meccanico di Di Battista: tragicommedia di un fallimento annunciato
Ancora sei giorni fa, l’ex sindaca di Roma, Virginia Raggi, si diceva fiduciosa sull’esito finale della votazione parigina per l’assegnazione di Expo 2030. D’altronde era stata proprio la Raggi, in limine della sua consiliatura e con mossa letta da molti come estremo tentativo di obliare la mancata candidatura alle Olimpiadi, tanto avversate dai pentastellati da sempre ontologici portatori del vessillo NIMBY e di cui rimane gustosa memoria della consultazione patrocinata da Di Battista che per l’occasione arruolò il suo meccanico di fiducia e altri amici per gridare la popolana contrarietà a ciò che sarebbe divenuto il solito “magna magna”, a candidare Roma per l’Expo del 2030.
Forse proprio questo aspetto aveva conciliato la nomina della Raggi, dopo la sconfitta patita alle urne, alla presidenza della neoistituita Commissione capitolina speciale per l’Expo 2030, che ora potrà chiudere i battenti senza grossi rimpianti.
La candidatura senza progettualità a Expo 2030
La candidatura sembrava però esser giunta senza particolare, convinta progettualità, se si considera che molte delle località individuate nell’originaria formulazione vennero poi stravolte dal nuovo inquilino di Palazzo Senatorio, Roberto Gualtieri.
Gualtieri, già. Lunedì pomeriggio prometteva non meglio chiarite sorprese. Forse si riferiva a una debacle, quella poi effettivamente materializzatasi nelle urne francesi, senza precedenti. Roma ha totalizzato una miseria assoluta di 17 voti. Un tracollo, perché di questo stiamo parlando, che nessuno avrebbe potuto prevedere. Perché se l’Arabia Saudita appariva largamente favorita, gli auspici italiani e romani in particolare erano quelli di arrivare a un dignitoso ballottaggio.
E invece niente. Battuti in maniera umiliante pure dalla coreana Busan, nota a livello internazionale giusto per un film horror di zombie, il pregevolissimo Train to Busan.
La foglia di fico dei petrodollari
Roma gli zombie non ce li ha, a parte Verano Zombie di Noyz Narcos e del Truceklan, però in compenso ha una lunga sequenza di gabbiani, cantieri, cinghiali, voragini, trasporto pubblico disfunzionale che si stipa ogni mattina di puntolini di carne umana, li chiamano pendolari e studenti e turisti, come nelle migliori scene de L’alba dei morti viventi. Train to Tiburtina.
Roma non ha nemmeno i petrodollari, nonostante le copiose voragini che però a quanto pare ne sono sprovviste, dollari divenuti la foglia di fico dietro cui stancamente si sono trincerati i protagonisti della corsa, fiacca, dell’Italia verso Expo 2030.
A partire da Giampiero Massolo, diplomatico di lungo corso e Presidente del Comitato promotore, che ha tuonato contro il tradimento dei Paesi europei che in effetti, a partire dalla Francia, hanno voltato le spalle all’Italia e contro lo spirito mercantile che avrebbe animato la competizione. I dollari, senza dubbio, da sempre, agevolano il soft-power, e su questo è impossibile dar torto a Massolo.
Ma se andiamo più nel profondo, se analizziamo nel dettaglio la fattibilità stessa, la credibilità del progetto, e a monte l’immagine che Roma rimanda di suo a livello globale, le cose si complicano e qualunque originario, se reale, ottimismo appare del tutto destituito di fondamento.
La timidezza delle istituzioni e lo scetticismo dei romani
Roma paga moltissimi fattori negativi, tra cui la sua disastrosa immagine di città sporca, disfunzionale, caotica, spesso pericolosa, respingente per molti turisti, ma paga soprattutto la sua natura del tutto irrisolta, una governance pencolante e sbilenca, non al passo con la sua storia, con la sua popolazione, con la sua estensione e che avrebbe dovuto gestire, non si sa come, assieme al governo, un evento mondiale.
Nei mesi scorsi, la città un tempo eterna è riuscita nella incresciosa impresa di far finire per la prima volta nella sua storia la parola “monnezzaro” sul New York Times. Con queste premesse, lo si intuisce agevolmente, più che una corsa, la gara per la assegnazione di Expo appariva la scalata dell’Everest. In mutande.
D’altronde, inutile prenderci in giro: la città sta arrivando con drammatico fiatone anche all’appuntamento, ampiamente preventivato e programmabile, del Giubileo 2025, con cantieri aperti tutti insieme, senza coordinamento, generando così un caos senza precedenti e la paralisi viaria, mentre il sistema del trasporto pubblico continua a far registrare un significativo peggioramento che i romani sperimentano sulla loro pelle ogni singolo giorno.
Ciò spiega anche la timidezza di tutti gli attori istituzionali coinvolti, oltre che il proverbiale scetticismo degli stessi cittadini romani che in tutto questo tempo hanno convissuto con il fantasma ingombrante dell’Expo in maniera largamente indifferente.
Non basta il passato glorioso per avere Expo 2030
Ovviamente, la sconfitta non fa mai bene. Ma soprattutto a fare male è la plateale inadeguatezza dell’idea progettuale, testimoniata in maniera eclatante anche dal museale spot di presentazione della candidatura.
Dobbiamo rendercene conto, in maniera brutale e sincera; il passato di Roma, visto lo stato in cui la città versa ormai da anni, negletta, dimenticata, sciatta nella sua polverosa maestà, non è più valore aggiunto ma aggravante.
Roma paga la scarsa autocoscienza progettuale, la sua atavica disillusione, la bonaria ma micidiale noia dei propri abitanti, abituati a vederne di cotte e di crude e drammaticamente disillusi e felici di scansare questo ennesimo fallimento con una scrollata di spalle, quasi a sospirare “scampato pericolo”. Perché così vengono percepiti gli eventi a Roma. Siano manifestazioni, Olimpiadi, Giubilei, Expo, qualunque cosa, è la tragica, qualunquista retorica del “magna magna” che apparve talmente tanto epifanica a Di Battista da volerla eternare in uno dei suoi volumi, nemmeno fosse un manuale di valutazione delle politiche pubbliche.
Altro che Expo 2030, Roma non attrae più investimenti
Roma paga poi la sua mancanza di soft power. L’Italia, di suo, è un ottimo attore di soft power, tanto da occupare una posizione ottimale nelle classifiche stilate da associazioni specializzate in questo peculiare filone escogitato tanti anni fa da Joseph Nye. Roma invece è un pessimo, pessimo attore di soft power.
Questa diplomazia di potere dolce, interconnessa tra economia, cultura, turismo, brand, si basa su articolate ragnatele di interessi, di progetti di sviluppo, di attrazione di investimenti: i dollari possono spiegare una parte, ma non tutto.
Roma, più semplicemente, non attrae investimenti, anzi possiamo dire che li respinge: è città difficoltosa in termini di spostamento e di burocrazia, lenta, pigra, non ha nulla di davvero moderno, è indolente, grottesca e farsesca spesso come un Celentano che interpreta Rugantino, ossificata, continua a convivere in maniera dolente con la sua aura di necropoli di antiche vestigia e di un passato che rischia di negarle il futuro. E se le cose non cambieranno, pesantemente, continuerà a trionfare il meccanico di Di Battista.
Foto Ansa
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