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Ex dipendente della Planned Parenthood: «Come sono diventata pro life»

Jewels Green, un tempo femminista: «Pensavamo di essere i salvatori delle donne in una società ingiusta. Ma una storia terribile fece crollare il castello di bugie»

Benedetta Frigerio
17/07/2016 - 2:00
Esteri
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Fin da adolescente Jewels Green sfilava alle marce femministe di Washington per gridare agli oscurantisti pro life che l’aborto è un diritto. E presto andò a lavorare in una delle cliniche dell’industria abortiva americana, raccontandosi che quella era la sua missione per salvare le donne.
Ma dietro il rancore e l’attivismo di Green c’era ben altro: «Sono stata spinta ad abortire quando avevo 17 anni, dopodiché tentai il suicidio. Ho cominciato a lavorare nell’industria dell’aborto come un modo per giustificare le mie azioni e cercare di non fare quel percorso interiore per cui guardi dentro te stessa e accetti le tue responsabilità. Lavorando nell’industria degli aborti, tutti intorno a me dicevano che era giusto, quindi cercavo di convincermi della stessa cosa», ha dichiarato Green in un’intervista pubblicata martedì 12 luglio sul canale Youtube di Life Site News. Anche allora c’era già qualcosa nel cuore di Green che non la lasciava tranquilla, ma «non sono cambiata da un momento all’altro. È stato un processo che è durato molti molti anni».

LA SVOLTA. Nel 2011 una donna, che aveva affittato il suo utero a una coppia che voleva comprare un bambino, le raccontò «che una sua amica del gruppo (delle madri surrogate, ndr) avrebbe fatto il test genetico sul bambino che aveva in grembo. I risultati dicevano che probabilmente avrebbe avuto la sindrome di Down. A questa madre surrogata fu offerto per abortire il pagamento pieno previsto dal contratto stipulato e lei lo ha fatto. Questo fu il colpo finale, erano decine di migliaia di dollari: “Ecco un vita scomoda, ecco qui un sacco di soldi, voglio che ti sbarazzi di quella vita scomoda”».
La svolta fu proprio allora: «Una volta che sono riuscita a dire che quell’aborto era sbagliato, per mantenere una integrità intellettuale, non è stato poi così difficile arrivare ad ammettere che tutti gli aborti sono sbagliati». E «in quel momento capii che non potevo essere una pro life solo in casa, con quello che avevo visto e vissuto mi sono sentita in dovere di uscire allo scoperto e di diventare un’attivista».

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L’AMBIENTE CUPO. Quando lavorava nella clinica, «sicuramente pensavamo, io stessa lo credevo, di aiutare le persone. Nei cinque anni in cui ho lavorato lì l’atteggiamento era questo: “Se non fossimo qui ad aiutarle, queste donne morirebbero in strada”. Guardavamo noi stessi come i salvatori delle donne e di queste povere anime: noi le avremmo aiutate perché la società non lo faceva». Ma anche quando «ero pro choice c’era sempre la grave consapevolezza che quello che facevamo era procurare la morte, l’unica soluzione che davamo alle donne era la morte». Era «certamente un ambiente cupo e facevamo dell’umorismo macabro, frutto della perdita della sensibilità verso le creature umane, simile a quella che stabilmente affligge i soldati in guerra. Perché non ce la fai ad essere circondato dalla morte, giorno dopo giorno, senza esserne toccato». E ancora: «Sì, pensavamo che stavamo aiutando le persone. Ma ritengo che in fondo non ci creda davvero nessuno, se è onesto».

LE MEZZE BUGIE. Green ha spiegato la differenza fra le cliniche abortive di Planned Parenthood e i centri di sostegno alla gravidanza americani: «È l’onestà», anche se «noi tutti pensavamo, quando dico noi intendo i dipendenti dell’industria dell’aborto, che a mentire a queste donne erano i centri di sostegno alla gravidanza. E appena divenni pro life le informazioni furono facili da trovare, lo sono anche per gli attivisti pro choice: cosa fanno e quanti sono centri di aiuto alla gravidanza. Così aprii gli occhi, perché prima guardavo al mio ruolo all’interno dell’industria dell’aborto senza capire che ero complice e che mentivo alle donne o non proprio, ma comunque nascondendo loro alcuni fatti in un momento tanto importante».
Le parole di Green e delle sue colleghe erano ovviamente affettuose: «Andrà tutto bene, ti terrò la mano, non devi andartene». Ma nei centri di aiuto alla gravidanza «non ricevi i soldi da nessuno: entri e puoi ottenere assistenza gratuitamente. E quello che ti offrono è la verità, oltre che la vita». La grande maggioranza delle donne che entrava nei centri abortivi «era a pezzi; sì, c’erano alcune che piangevano e altre che cercavano di ridere come per fare le indifferenti, ma la maggioranza era atterrita», contribuendo «a generare nella clinica quel clima cupo di cui ho raccontato prima».

LA CONVERSIONE. Dopo essere passata dalla parte della vita, Green si è convertita al cattolicesimo: «Questo è stato il secondo step per me: prima sono diventata pro life. Credo che conoscere la verità mi abbia guidato alla verità con la V maiuscola, a diventare cattolica. E non c’è nulla di più bello della confessione ma quello che mi ha veramente attirata è l’Eucarestia, la Sua vera presenza, per cui ogni volta che guido e vedo una chiesa so che lì c’è Gesù». Colpita dal fatto che la verità conduca a Dio, Green ha concluso: «Questa per me è stata la cosa più incredibile diventando pro life: ricevere il perdono di Dio, essere capace di accettarle il perdono di Dio, comprendere e accettare la mia responsabilità rispetto alla morte del mio primo figlio e a quella di centinaia di bambini. E quindi chiedere e ricevere perdono».

@frigeriobenedet

Foto Ansa

Tags: Abortoplanned parenthoodpro choicepro life
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