
Tentar (un giudizio) non nuoce
Europa: competitività o declino?

“L’Ue rischia l’agonia”, così titolava Repubblica il giorno dopo la pubblicazione del rapporto Draghi sul Futuro della competitività europea. In questi giorni i commenti hanno messo l’accento soprattutto sulla necessità di investimenti addizionali per 800 miliardi all’anno, circa il 4,5 per cento del Pil europeo, ovvero il triplo di quello che fu il Piano Marshall. Già questo la dice lunga su quanto sia fattibile uno sforzo simile per recuperare il gap in innovazione, alti costi dell’energia e vulnerabilità da fattori esterni che, insieme alla crisi demografica, sono le tre cause di debolezza strutturale indicate da Mario Draghi.
Ma pochi hanno guardato l’altra faccia della medaglia: cosa succederà se l’Europa non recupera competitività? L’Europa sarà più debole ed esposta a rischi esterni, anche di tipo militare – non a caso Draghi richiama la necessità di rafforzare l’industria della difesa e la difesa comune – ma soprattutto metterà a rischio il proprio sistema di welfare, quello che garantisce sanità gratuita e previdenza sociale a condizioni impensabili in altre parti del mondo. Non è dunque solo un problema di competizione economica quello che abbiamo davanti, ma, come dice lo stesso Draghi, «una sfida esistenziale, un bivio tra una lenta agonia, oppure la sfida a ritrovare le ragioni dello stare insieme».
Un’Europa diversa
Non siamo abituati a pensare che sia davvero possibile un futuro in cui l’Europa percorra la via del declino, eppure il rischio è tutt’altro che teorico e la storia ce lo ha insegnato molte volte. Il rapporto e i suoi allegati, con le loro 170 proposte di riforma, ma ancor più con la quantità di dati, grafici e tabelle, spiegano, per dirla in modo brutale, perché non è così remoto il rischio di un futuro in cui saranno gli europei a dover lavare i vetri delle auto ai semafori asiatici o americani.
Dunque, di fronte a questa evenienza cosa vogliamo fare? Davvero possiamo pensare che i nostri piccoli sovranismi alla Vannacci saranno in grado di metterci al riparo? Io credo proprio di no e per questo sono europeista oggi più di ieri! Ma questo non mi impedisce di chiedere un’Europa diversa, che sappia vedere e correggere gli errori del passato.
Tre problemi
Quali sono? Io ne indico innanzitutto tre, il cui superamento a mio parere rappresenta anche la base valoriale necessaria per il rilancio della competitività europea.
Il primo è aver lasciato spazio all’ideologia al posto del realismo. In particolare, ad una certa ideologia ambientalista. I cambiamenti necessari vanno fatti, ma occorre tener conto di tutti i fattori in gioco. Il capitolo del rapporto Draghi che affronta i temi dell’energia e del cambiamento climatico, in modo garbato e talvolta implicito, fa però emergere chiaramente una critica a decisioni e scelte che hanno messo a rischio il futuro dell’industria europea e non a caso cita il nucleare tra le fonti energetiche necessarie per la decarbonizzazione.
Il secondo è la mancanza di fiducia, che ha spinto a far prevalere gli interessi particolari su quelli comuni. Se l’Europa ha 27 mercati finanziari nazionali e non un unico mercato finanziario comune è impossibile che possa attrarre le centinaia di miliardi di investimenti e capitali privati di cui abbiamo bisogno. Se oggi possiamo vendere aerei europei a tutto il mondo è perché decenni fa abbiamo avuto il coraggio di fare il consorzio Airbus, che ha potuto competere alla scala globale, altrimenti voleremmo tutti sui Boeing! Ma, per un esempio positivo, quanti ne possiamo fare in negativo? Chi di noi ha in tasca un telefonino “made in Europe”? Chi sta comprando programmi di AI europei? Dove sono i vettori europei per la space economy o i grandi produttori di microchip?
Il terzo è la perdita della propria identità culturale e religiosa: l’Europa non è uno stato federale, né una confederazione, ma è una comunità di valori. Se questi valori condivisi si indeboliscono non c’è più ragione per stare insieme. Questo a me pare il vero pericolo della crescente ondata di sovranismo, così diffusa anche a casa nostra: metter davanti ciò che ci divide anziché ciò che ci unisce.
Cosa ci unisce
Bisogna avere il coraggio di dire ad alta voce ciò che ci unisce: una civiltà e una visione della persona e dello Stato frutto di due millenni di cultura e tradizione cristiana, e prima ancora greca ed ebrea. Se l’Europa perde la coscienza delle proprie radici non ci sarà alcun allarme competitività o interesse economico che possa tenere insieme a lungo una comunità così multiforme.
Dunque, così come abbiamo bisogni di recuperare produttività, trovare 800 miliardi di investimenti all’anno, innovare di più, ridurre i prezzi dell’energia e le troppe dipendenze dall’estero, dobbiamo al tempo stesso, come europei, ricordare chi siamo, quali valori e visioni stanno alla base della civiltà europea e quale cultura ha generato la grandezza del nostro continente nella storia e può assicurarne il futuro.
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