Esplosioni a Baghdad, generale Jean: «Attentati di carattere politico»

Di Daniele Ciacci
25 Dicembre 2011
«I 72 morti sono un avvertimento al premier: Maliki, non monopolizzare il potere e dai spazio anche alle altre etnie». Parla il generale Carlo Jean, medaglia d'oro Ghandi dell'Unesco per il suo operato in favore della pace in Medio oriente

Domenica 18 dicembre, il presidente Usa Barack Obama ha dichiarato di aver lasciato un Iraq «stabile ed autosufficiente».
Quattro giorni dopo sedici ordigni esplodono a Baghdad, causando 72 morti e più di 200 feriti.
«Quando esistono forme di guerra civile, è ben difficile ipotizzare una stabilità in breve tempo» spiega a Tempi.it il generale Carlo Jean, medaglia d’oro Ghandi dell’Unesco per il suo lavoro a favore della prevenzione dei conflitti in Medio oriente. «Penso che gli attentati fossero un avvertimento per il partito del primo ministro Maliki».

Che tipo di avvertimento?
«Studiando il posizionamento delle deflagrazioni, penso che gli sciiti fossero l’obiettivo dell’attacco. Hanno voluto avvertire al Dawa, il partito fondato dal primo ministro Maliki, di non monopolizzare il potere e di dare spazio anche alle altre etnie».

Quali sono le etnie presenti in Iraq?
«Nel paese si sono radicate divisioni di carattere non solo religioso, ma soprattutto etnico: curdi, arabi sunniti e arabi sciiti. Questo rende difficile la convivenza ed espone la popolazione innocente ad attentati di carattere politico. Stabilizzare un paese come l’Iraq è molto difficile, così come la transizione verso forme più accettabili di governo».
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Quattro giorni dopo la partenza degli americani, Baghdad diventa teatro di un attacco cruento. Obama ha sbagliato a lasciare il paese in una situazione ingestibile?
«Perché? Gestire l’Iraq è relativamente difficile, ma non impossibile. La stabilizzazione dell’Iraq consentirebbe di vendere petrolio ed esportarlo. Se persiste una situazione caotica, anche i ricavi sul petrolio diminuiranno. Bisogna stare a vedere. Quando esistono forme di guerra civile, è ben difficile ipotizzare una stabilità in breve tempo. Può darsi che il Kurdistan diventi sempre più autonomo e si difenda con le armi, oppure che i sunniti, appoggiati dall’Arabia Saudita, facciano pressioni ulteriori sul governo iracheno. Insomma, è ancora presto per dire se ci sarà una stabilità o meno».

Quindi, l’ipotesi di una frammentazione dell’Iraq è concreta?
«Come tutti gli Stati plurietnici, è verosimile. Si dividono in maniera tranquilla e democratica, come ha fatto la Cecoslovacchia, o per mezzo di una guerra civile. Questa è la situazione dell’Iraq. Qui, la differenza la farà la qualità della dirigenza irachena nell’amministrazione degli introiti del petrolio. Magari, mediante una gestione separata del capitale nelle diverse etnie. Inoltre, l’Iraq ha una borghesia piuttosto forte. Adesso in molti sono emigrati, ma se ritornano, il consolidamento sarà facilitato».

Come si evolveranno i rapporti tra Iraq e Iran?
«A mio avviso, noi valutiamo in modo semplicistico i rapporti tra Iran e Iraq. Pensiamo che gli sciiti iracheni e quelli iraniani si influenzino a vicenda quasi automaticamente. Ma non è pacifico che Iran e Iraq si uniscano. Gli iracheni arabi odiano i persiani e il fattore etnico è superiore a quello religioso. Sicuramente esistono fazioni che sostengono l’Iran, ma vi sono pure molti nazionalisti arabi».

Come potrebbe incidere l’Europa in questa situazione?
«L’Occidente deve smettere di guardare solo quello che succede dentro i suoi confini. La crisi economica attira tutte le attenzioni e noi siamo sordi ai cambiamenti che colpiscono il Medio oriente. L’unico paese che può mediare con gli arabi è la Turchia. E noi la bistrattiamo. Si pensi alla Francia, e alla maniera sciocca con la quale ha trattato il genocidio degli armeni. Che bisogno c’era? È capitato cent’anni fa. È come se i francesi assaltassero gli italiani perché Giulio Cesare ha sconfitto Vercingetorige. È una follia».

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