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La vita è un mestiere in cui non si può mai dire «adesso basta»

Il gesto di Piero è solo l’ultimo di una lunga teoria di atti gratuiti che hanno costellato in questi anni la storia di In-Presa, fondata nel 1997 da Emilia Vergani, di cui in questi giorni si ricordano i doppi anniversari di nascita e di morte

Emanuele Boffi
09/11/2014 - 2:30
Società
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Dopo quarantadue anni trascorsi in azienda, Piero è andato in pensione. Entrato giovanotto come garzone, il nostro operaio è diventato nel corso di quasi mezzo secolo un’istituzione, combattendo mille battaglie sul fronte sindacale (Cgil) e divenendo responsabile della qualità del prodotto. L’ultimo giorno di lavoro ha consegnato una lettera di commiato ai colleghi chiedendo non un qualche regalo, ma di lasciare una donazione per In-Presa, centro brianzolo (oggi è una scuola) in cui ci si occupa dei giovani a rischio di «emarginazione sociale» – espressione terribile con cui si indicano ragazzi dai percorsi scolastici zigzaganti e vicende familiari contorte.

Il gesto di Piero – piccolo, minimo, insignificante – è solo l’ultimo di una lunga teoria di atti gratuiti che hanno costellato in questi anni la storia di In-Presa, fondata nel 1997 da Emilia Vergani, di cui in questi giorni si ricordano i doppi anniversari di nascita e di morte (Carate Brianza, 6 novembre 1949 – Asunción, 30 ottobre 2000). Sin dalla sua nascita, infatti, In-Presa è vissuta grazie alla generosità e all’impegno di molti che, di fronte a un bisogno, “non si sono voltati dall’altra parte” o non si sono giustificati grazie alla più comoda e deleteria delle scuse: aver fatto a sufficienza il proprio dovere.

La prima fu proprio Emilia che, da assistente sociale, entrò in contatto con adolescenti frustrati e abbandonati persino da quelle stesse istituzioni (lo Stato, la scuola, i comuni) preposti a loro. In uno dei rari scritti che ci ha lasciato, Emilia raccontò di una telefonata di una collega che la chiamò per comunicarle che con quel tal ragazzo «era stato fatto di tutto, gli abbiamo persino trovato un lavoro, ora basta». La sua risposta fu fulminante: «È come se con i miei figli dicessi “adesso basta”. Nell’educazione non c’è un momento in cui puoi dire: “Adesso basta”. Io penso che per me, per noi che siamo all’In-Presa, la cosa più soddisfacente sia il richiamarci e il verificare continuamente che per noi non è come per l’istituzione o per l’ente pubblico che dice: “Ho fatto fin qui e ora basta”. Per noi è un’altra questione».

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La questione per Emilia fu, innanzitutto, coinvolgersi con quegli adolescenti scartati da tutti. Aprì le porte di casa ad alcuni di quei ragazzi che poi divennero dieci, poi cento e infine, oggi, quattrocentoventi. Ma per Emilia non fu solo una problema di dedizione a vite sfilacciate. Per lei c’era da far provare a quei giovani «la bellezza della vita», cioè proporre loro, all’interno di un’ottica cristiana mai imposta ma sempre suggerita, che la vita è «un cammino alla scoperta del suo senso». Da qui la conseguenza che ogni ambito – il lavoro, le amicizie, la famiglia, la scuola – è educativo a suo modo, perché anche la vita è un mestiere per cui non si può mai dire: «Adesso basta».

Oggi si parla molto di giovani, soprattutto in relazione alla crisi occupazionale, e lo si fa per lo più a sproposito. Intervistato da tempi.it, un bravo docente universitario come Dario Nicoli ha raccontato che i suoi studenti sin dalla prima lezione gli chiedono: «“Prof, saremo disoccupati?”. E io rispondo, molto tranquillamente: “Ragazzi, voi dovete ancora entrare nel mondo del lavoro, per essere un disoccupato bisogna prima aver avuto un’occupazione e averla persa”».

Questi studenti universitari, certamente dei privilegiati rispetto ai “pericolanti” di In-Presa, hanno con loro in comune la stesse ansie che, non credo di sbagliarmi, sono state loro riversate nell’animo da adulti insicuri e traballanti loro stessi. Quel che ci vorrebbe oggi, forse molto più dei pur necessari interventi delle istituzioni in campo legislativo, sono educatori che abbiano chiaro chi sono, cosa vogliono e soprattutto dove vogliono portare quei loro figli che si affacciano alla vita adulta. Ma queste sono cose che, appunto, nessuna istituzione potrà insegnare o imporre (anche se, avessero la bontà di favorirle anziché tassarle, sarebbe già qualcosa).

Se c’è un suggerimento che la storia di In-Presa può dare oggi alla nostra società abitata da «uomini impagliati», per dirla alla Eliot, è che un’opera buona deve esserlo non solo per la parte debole cui è rivolta (i disagiati), ma anche per chi si trova a sostenerla: imprenditori, insegnanti, amministratori, assistenti sociali. Emilia chiamava tutti a partecipare del positivo che aveva sperimentato per sé. Quattordici anni dopo la sua scomparsa, il piccolo grande gesto di Piero ci testimonia che quel filone d’oro non si è ancora esaurito.

Tags: dario nicoliemilia verganigiovaniin-presaLavoroScuola
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