Riportare la stabilità nella regione del Medio Oriente e del Golfo, ponendo fine alla guerra in Yemen, scongiurare un attacco contro l’Iran da parte di Stati Uniti e Israele, bilanciare l’influenza delle potenze di Stati Uniti e Cina. Sarebbero queste le ragioni che hanno spinto l’erede dell’Arabia Saudita, Mohammed bin Salman (Mbs), a lavorare intensamente per accelerare il raggiungimento dell’accordo con l’Iran firmato lo scorso 10 marzo a Pechino. La scelta della Cina come mediatore dell’intesa – obbligata per Teheran – ha rappresentato invece per l’Arabia Saudita una uscita dai canoni del passato, confermando la volontà dell’erede al trono di bilanciare la storica dipendenza del regno dagli Stati Uniti e aprendo la strada all’ingresso di Pechino negli affari regionali.
«All’Arabia Saudita serve stabilità»
Intervistato da Tempi, Abdolrasool Divsallar, analista e docente dell’Alta scuola di economia e relazioni internazionali dell’Università Cattolica di Milano, sottolinea che le ragioni sul piano geopolitico che hanno spinto l’Arabia Saudita a raggiungere un accordo con l’Iran con la mediazione della Cina sono legate alle conseguenze devastanti di una crisi nella regione derivante da uno scontro tra Teheran e Israele.
Secondo l’analista «in questi anni i sauditi hanno cercato di essere più concentrati sullo sviluppo economico basato sulla Vision 2030, che implica avere una regione caratterizzata da una grande stabilità e quindi non avere problemi con i paesi vicini», evitando dunque che l’ambizioso programma di riforme, simbolo del rinnovamento portato da Mbs, rimanesse solo sulla carta.
È ora di porre fine alla guerra in Yemen
I progetti di transizione energetica che vedono, soprattutto in Europa, la progressiva riduzione degli idrocarburi come risorsa primaria per la produzione di energia, stanno infatti preoccupando l’Arabia Saudita, primo esportatore di petrolio al mondo. Per il regno del Golfo risulta fondamentale completare il processo di trasformazione sociale ed economica in tempi relativamente brevi. In questo contesto, la guerra in Yemen in cui l’Arabia Saudita è impantanata dall’aprile del 2015 contro i ribelli sciiti Houthi, sostenuti e armati dall’Iran, ha rappresentato il principale ostacolo ad investimenti di una certa rilevanza nel paese da parte straniera.
Un accordo con l’Iran, soprattutto di fronte a una guerra che molti in Medio Oriente definiscono un “Vietnam saudita”, era per Riyad di fatto inevitabile. Secondo fonti del Wall Street Journal, dopo l’accordo di Pechino, l’Iran avrebbe accettato di non inviare più armi alle milizie di ribelli sciiti Houthi in Yemen. È importante ricordare che furono proprio i ribelli sciiti – che dal 2014 controllano la capitale yemenita Sana’a e parte del nord del paese – a rivendicare il devastante attacco che il 14 settembre del 2019 colpì le infrastrutture petrolifere della Saudi Aramco di Abqaiq e Ruwais impiegando droni e missili da crociera di fabbricazione iraniana e cinese.
«L’Iran non ha alternative alla Cina»
Se per l’Arabia Saudita ridurre le tensioni con l’Iran e consolidare il rapporto con la Cina rappresenta un fattore fondamentale per accrescere il suo ruolo regionale, per Teheran si tratta sostanzialmente di sopravvivenza. «Per l’Iran è un tentativo di uscire dall’isolamento internazionale», dichiara Divsallar, secondo cui tale situazione si è ulteriormente aggravata dopo la fornitura dei droni Shahed-136 alla Russia, da impiegare nella guerra in Ucraina, e la repressione dell’ondata di proteste in corso nel paese dallo scorso settembre. Inoltre, secondo l’analista, alla luce del mancato rilancio dell’accordo sul nucleare, Teheran è convinta che «parte dei problemi possano esseri risolti, facendo accordi con i paesi vicini e i vari attori regionali».
In questo contesto, la Cina appare per i due paesi rivali l’unica tra le potenze globali in grado di poter garantire nel lungo periodo un accordo che potrebbe avere sviluppi su molteplici fronti e cambiare in parte anche lo storico assetto regionale. Nel 2021, la Cina ha firmato con l’Iran un importante accordo di cooperazione che, secondo varie stime, avrebbe un valore potenziale di 400 miliardi di dollari. Pechino è rimasta però finora restia a trasferire investimenti nel paese proprio a causa della situazione regionale e dell’isolamento iraniano: nel 2022, le aziende cinesi garantivano solo il 3 per cento (185 milioni di dollari) degli investimenti esteri totali in Iran.
Pechino offre garanzie
«Entrambi i paesi hanno deciso di fornire un ruolo a Pechino. Perché, a mio avviso, hanno percepito il valore del coinvolgimento cinese in questo processo», dice Divsallar. «In particolare, per i sauditi era ovvio che nessun altro potere forte aveva la capacità di garantire questo processo. Fare un accordo avendo alle spalle solamente l’Iraq e l’Oman aveva questo problema di garanzie, non sarebbero stati in grado di assicurare la tenuta di questo accordo. La Cina offre invece garanzie che questo accordo sarà maggiormente durevole», afferma l’analista.
«L’Iran ha dato questa chance alla Cina, perché Pechino è il più importante attore in campo ed è il principale partner economico in Iran. Loro (gli iraniani) sono interessati a incentivare la Cina per la futura cooperazione. Entrambe le parti guardano a Pechino come mediatore nella regione», sottolinea Divsallar.
I sauditi non si fidano più degli Usa
La trasformazione negli ultimi due decenni degli Stati Uniti in esportatore di petrolio e gas ha avuto un impatto sulle sue politiche nella regione del Golfo. Secondo i sauditi, Washington ha dato la priorità ai propri interessi a scapito dei partner in moltissime occasioni, dalla guerra contro l’Iraq del 2003 all’accordo sul nucleare iraniano del 2015. Il risultato è che ormai la Cina ha sorpassato da anni gli Stati Uniti come principale partner economico dell’Arabia Saudita, con un commercio bilaterale del valore di 87,3 miliardi di dollari nel 2021, nettamente superiore ai 24 miliardi di dollari di interscambio tra Riyad e Washington registrati nello stesso anno.
Come sottolineato dall’ex segretario di Stato Usa, Henry Kissinger, al giornalista ed editorialista del Washington Post David Ignatius, la diplomazia “triangolare” portata avanti dai sauditi è molto simile all’apertura condotta durante la presidenza di Richard Nixon verso la Cina nel 1971. «Lo vedo come un cambiamento sostanziale nella situazione strategica in Medio Oriente», ha affermato Kissinger. «I sauditi stanno ora bilanciando la loro sicurezza mettendo gli Stati Uniti contro la Cina», dando il via a un Medio Oriente “multipolare”. Un «nuovo gioco con nuove regole».
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