«E chi è Baroncini?», chiese il Papa a Giussani
Don Fabio è spirato alle 7.30 di ieri mattina, una giornata uggiosa che va d’accordo con la tristezza.
Vidi per la prima volta don Fabio agli inizi degli anni Settanta, in occasione di quello che ricordo come mio primo incontro con gli universitari di Comunione e Liberazione. Eravamo nel salone di un oratorio dalle parti di Città Studi (Milano). Era d’estate, stavamo cantando Laudato si’. A un certo punto sulla soglia aperta di una porta laterale comparve un tizio alto e magro; aveva gli occhiali, indossava pantaloni scuri e una camicia bianca con le maniche arrotolate. Mi sembrò un intellettuale, un tipo pensoso, come diversi altri personaggi che frequentavano Cl. Domandai ai vicini chi fosse; mi dissero Fabio Baroncini, appena ordinato prete.
Per qualche anno non lo vidi più. Lo incontrai nuovamente quando don Angelo Scola, che allora seguiva gli universitari ciellini, gli chiese di venire a “dare una mano” e condividere la responsabilità della conduzione della esperienza di Cl nelle università milanesi. Da allora, per quasi cinquant’anni, con don Fabio ci siamo visti tutte le settimane anche più di una volta, nei momenti di responsabilità del Clu e del Movimento tutto, diocesano e nazionale. Don Fabio in quanto animatore e guida della comunità di Varese, una delle più numerose d’Italia, faceva già parte del Consiglio e della Presidenza di Cl.
Non era un intellettuale, un teorico, anche se era colto perché leggeva moltissimo. Amava la letteratura russa, come dimostrò al Meeting di Rimini con una magistrale conferenza su Dostoevskij. Amava Charles Péguy, Paul Claudel e T. S. Eliot, sulle cui opere tenne decine e decine di incontri, richiesti da studenti medi, universitari e adulti. Amava Dante, che commentava e citava a memoria. Non disdegnava le discussioni teologiche, anzi vi si gettava a capofitto in difesa dell’ortodossia e del valore educativo della dottrina cattolica.
La sua grande preoccupazione era il metodo, ovvero che i contenuti della proposta cristiana non erano vivibili se non erano accompagnati dalla proposta di come viverli. In ciò era un vero seguace di don Luigi Giussani, che «per una parola si sarebbe fatto uccidere», perché le parole non sono suoni intercambiabili, ma espressione consapevole e concreta dell’esistenza nella situazione. Si appellava alla ragione e alla libertà, doti fondamentali di un cristiano che voglia essere uomo e viceversa. La ragione, riconoscendo per vivere la necessità della fede, doveva diventare convinzione, legarsi tenacemente alla verità.
Per don Fabio l’esistenza era chiamata a una continua decisione, che accettava il dramma di tagliare – “decedo”, diceva, con il senso di un tagliare che comporta un po’ morire, fare sacrificio – le strade inutili, vagheggiate ma impossibili. Da lui andavano in tantissimi, che avevano difficoltà personali, nella vocazione, nel lavoro, nel matrimonio o nell’educazione dei figli. Per molti anni abbiamo “lavorato” in coppia. Lui mandava da me, per le mie competenze psicologiche, le persone di cui sospettava fragilità mentali e io mandavo da lui quelli che tendevano a risolvere con un supporto psicologico problematiche esistenziali. Lui lavorava molto più di me perché un buon prete, paterno ed esperto di vita, è molto più necessario di uno psicologo. La mancanza di don Fabio, da quando il Parkinson lo ha imprigionato nella sua silenziosa e marmorea rigidità, si sente tantissimo.
In don Fabio, la stima per don Giussani, la fedeltà al Movimento e alla Chiesa si risolvevano in un’obbedienza intelligente e senza tentennamenti. Fraternità e unità erano condizioni continuamente richiamate, soprattutto negli ultimi tempi, quando capiva che non aveva tempo e forza di soffermarsi su altro, anche se magari avrebbe voluto. Nelle assemblee poteva essere burbero e anche duro, ma poi nel dialogo personale sempre era comprensivo e affettuoso, pur non cedendo sui princìpi cristiani che faceva capire con una dolcezza ferma.
Era un valtellinese nato a Morbegno nel 1942. Portava come esempio di amore coniugale la sua mamma Pina, che, rimasta incinta di lui, vide il suo uomo partire alpino per la Russia, senza saperne più niente – se era vivo, se era morto – fino a guerra finita. Come suo papà, si sentiva un soldato semplice: «Davanti ai muli, dietro i cannoni, lontano dai superiori».
Era appassionato della montagna, dell’impegno e della disciplina che essa richiede, della bellezza delle cime e delle valli, della semplicità della sua gente e dei canti, soprattutto dei canti, che dovevano essere fatti bene, con belle voci soliste e grande attenzione del coro. Anche negli ultimi tempi i canti lo sollecitavano e lo rimettevano in moto: non riusciva quasi più a parlare, ma a cantare sì. Raccontava delle sue imprese, con grande ammirazione per i ragazzi che lo accompagnavano: non si sottovalutava, ma era umile, sapeva riconoscere e valorizzare chi faceva bene e magari meglio di lui. Non l’ho mai sentito chiedere per sé.
Era orgoglioso dell’amicizia, nata in gioventù, con Angelo Scola, divenuto cardinale di Milano. Aveva appeso a una parete una foto grande e bella che ritrae loro due, ragazzi, alla fine di una scalata in Grigna. Era contento quando gli raccontavo che Giussani, durante una colazione, cui ebbi la fortuna di partecipare anch’io, con Giovanni Paolo II, alla domanda del Papa su chi fosse il primo prete del Movimento, rispose «Baroncini». Lui, come disse il Papa – «e chi è Baroncini?» – non era un prete famoso, ma il primo soldato che Giussani ricordava del suo “esercito”.
Siamo andati spesso a cena insieme, al ristorante o nelle case, discutendo di tutto, in particolare di Chiesa e politica, anche in modo acceso, senza mai permettere che l’amicizia venisse incrinata. Don Fabio aveva grande senso dell’umorismo. Prendeva in giro e si faceva prendere in giro per certe sue abitudini strane come la richiesta di solo vino bianco frizzante, che poi, prima di bere, “sgasava” con un apparecchietto particolare, una specie di ventolino manuale di metallo, che gli era stato regalato; come, in un certo periodo, il consumo industriale di Eparema, un epatoprotettore non nocivo, ma nemmeno terapeutico.
Delle malattie aveva un’idea sua, per la quale esse andavano sostanzialmente per conto loro. Faceva tutto quello che gli dicevano i medici, ma con una certa distanza mentale. Ci ho messo diverso tempo a convincerlo di fare gli esami per il Parkinson, di cui poi non l’ho mai sentito lamentarsi, nonostante la sofferenza – non potersi muovere per un montanaro, non poter parlare per un prete ed educatore – sia stata enorme. Della vita ha accettato tutto quello che essa gli ha dato, perché sapeva che la realtà è nelle mani di Dio e quindi ultimamente positiva e che noi, come diceva spesso in dialetto, «siamo qui provvisori». Ieri mattina se ne è andato a trovare il Dio, di cui ha sempre cercato e indicato i segni.
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