Dopo il Nobel a Yamanaka, che fine hanno fatto i biofaustiani?

Di Emanuele Boffi
21 Ottobre 2012
È un premio che è una bastonata in testa a tutti i “paladini della ricerca” come Veronesi. Che ora fanno finta di niente

L’ultima volta che la stampa italiana si è occupata di Hwang Woo-suk è stato per una storia di clonazione di mammut. Riferimento piccolo piccolo da pagine interne, di quelli che hanno l’unico scopo di catturare la curiosità del lettore con novità a mezza strada tra lo scientifico e lo spettacolo (o meglio scientifico-spettacolare). Quella volta ce la si cavò con uno scontato riferimento cinematografico a Jurassic Park, una foto di un qualche bestione primitivo, un favolistico riferimento a un futuro lontano in cui su questa Terra avrebbero di nuovo passeggiato villosi elefanti preistorici. Ma Hwang Woo-suk, solo qualche anno prima, era l’uomo che il mondo – e la natale Corea del Sud in primis – spingeva come miglior candidato al Premio Nobel per la medicina. Autore della prima clonazione di un cane (Snuppy o Snyppy si chiamava a seconda della traduzione, comunque un nomignolo assai carino), Hwang aveva pubblicato nel 2004 su Science uno studio sull’estrazione di una linea di cellule staminali ricavate da embrioni clonati. La Borsa aveva festeggiato l’evento con un’impennata, il mondo plaudito, la Corea del Sud proposto il suo eroe al Premio più famoso del mondo. Il “pioniere della clonazione” lo chiamavano. Finalmente la scienza trionfava sullo zelo religioso di chi si faceva tanti scrupoli a usare e distruggere embrioni “per il bene dell’umanità” (otto anni dopo, quanti sono i malati guariti grazie alle embrionali? Riposta facile: zero).

Otto anni dopo, Hwang è caduto in disgrazia per studi dimostratisi falsi e si è fatto qualche anno di gattabuia, mentre quel Premio è stato assegnato al britannico John Gurdon e al collega giapponese Shinya Yamanaka, autori di ben altre scoperte. “Sulle staminali”, hanno scritto. Dimenticando, almeno nei titoli, di evidenziare la caratteristica di tali staminali. E cioè che trattasi di cellule adulte, riprogrammate e fatte “ringiovanire” fino allo status di bambine. Un risultato ottenuto lavorando sui topi, riprogrammando le cellule fino a giungere alle Ips (cellule pluripotenti indotte), uno stadio simile a quello embrionale. La nostra grossolana spiegazione non sarà forse impeccabile, ma conta un altro fattore: nessun embrione umano è andato distrutto. Ora le chiamano staminali “etiche”, che fino a ieri era un mezzo insulto, come a dire “cattoliche”, “oscurantiste”, “antiscientifiche”. Ora hanno vinto il Nobel. Chissà, forse non porteranno nessun beneficio nemmeno queste ultime, ma certamente oggi gli scienziati più assennati dicono che sono loro il futuro e che se c’è una speranza per molte malattie incurabili è a queste che bisogna affidarsi. Alle staminali “cattoliche”, pardon “etiche”.

INTUIZIONE, REALISMO E PRECAUZIONE. Che poi Yamanaka non è nemmeno cattolico. Però questo ortopedico oggi Nobel ha raccontato nel 2007 al New York Times dove sia nato il suo interesse per le cellule: «Quando ho visto l’embrione, mi sono reso conto all’improvviso che c’era solo una piccola differenza fra lui e mia figlia. Ho pensato che non possiamo continuare a distruggere embrioni per la nostra ricerca. Ci deve essere un’altra strada». Intuizione, realismo e applicazione laica e razionale del principio di precauzione (infatti: se l’embrione umano non è un “chi” ma una “cosa”, che cos’è? E per quale magico passaggio ciò che è “cosa” diventa poi “qualcuno”? Domande cui gli svolazzi degli azzeccazigoti non hanno mai dato risposta).

È stato seguendo quell’illuminazione che Yamanaka ha aperto una strada, tanto che persino Ian Wilmut, il papà di Dolly, la pecora-clone che ha fatto belare i media di tutto il globo e che invece è invecchiata troppo precocemente come gli esperimenti su di lei, ha riconosciuto che è questa la via che la scienza deve seguire. La ricerca sulla clonazione, ha scritto Wilmut il 17 novembre scorso sul Daily Telegraph, ormai è inutile. Il futuro è di un ortopedico che guardando un embrione ha visto sua figlia. Mica Snuppy.

La scoperta di Yamanaka, che ha sviluppato gli studi di Gurdon, risale al 2007 e anche questo lasso di tempo (dall’annuncio al conferimento del Nobel) è un dato inconsueto, ma interessante da notare. Perché chi in questi anni ha raccontato e guardato con interesse agli studi di Yamanaka e di quanti cercavano vie alternative alla sperimentazione sulle embrionali sono stati scienziati lontani da furori faustiani (in Italia uno su tutti: Angelo Vescovi, taoista), realtà e media cattolici.

COME SE NULLA FOSSE SUCCESSO. A tempi.it Jean-Marie Le Méné, presidente della Fondazione Jérôme Lejeune, ha ricordato che fu lui, nel 2006 (si noti la data), a portare il futuro Nobel a Roma, con la collaborazione della Pontificia Accademia per la Vita.

Yamanaka, e chi era costui? L’Italia viveva ancora i postumi della battaglia referendaria sulla Legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Nel 2007, per dire, l’Associazione Luca Coscioni, la Consulta di bioetica e la Rosa nel pugno avevano organizzato a Roma un convegno sulle cellule staminali embrionali, in cui c’era stato anche chi aveva invitato a ribellarsi alla «dittatura dell’embrione». Solo due anni prima, e si era in piena campagna referendaria, Giovanni Sartori dileggiava papa Wojtyla sulla prima pagina del Corriere della Sera perché aveva osato asserire che «la scienza ha ormai dimostrato che l’embrione è un individuo umano». Un’assurdità, argomentava Sartori, perché «non posso uccidere un futuro, qualcosa che ancora non esiste. Se uccido un girino non uccido una rana. Se bevo un uovo di gallina non uccido una gallina. Se mangio una tazza di caviale non mangio cento storioni. E dunque l’asserzione che i diritti dell’embrione sono equivalenti a quelli delle persone già nate è, per la logica, una assurdità». E però Sartori non ebbe nulla da obiettare quando, qualche mese dopo, Umberto Veronesi, su quella stessa prima pagina, scrisse la più singolare, astrusa e grottesca affermazione della zoo parade faustiana: «Gli embrioni degli scimpanzé sono progetti di esseri umani».

«LA VITA INIZIA QUANDO LO DICO IO». Forse un giorno qualche luminare spiegherà come mai un ortopedico guardando un embrione di girino vede un girino, guardando un embrione di gallina vede un gallina e guardando un embrione umano vede un essere umano come sua figlia. Ma dev’essere una questione di logica che sfugge ai cattolici, evidentemente. Perché, sempre in quegli anni, altri esimi scienziati (Nobel anch’essi) come Rita Levi Montalcini e Renato Dulbecco erano pronti a giurare su Repubblica che «gli embrioni precoci sono un esiguo cumulo di poche cellule».

Erano tempi “un po’ così”, quelli. Bastava spararla grossa e si guadagnavano le prime pagine. Così Carlo Flamigni, fiero e battagliero sostenitore delle pratiche di fecondazione assistita senza troppi fronzoli, poteva dire a Repubblica che «la vita inizia quando la donna decide che è iniziata» e Monica Bellucci poteva lamentarsi sull’Unità che, a causa della Legge 40, saremmo stati costretti «a comprare le cellule staminali ed embrionali all’estero, guardando agli altri paesi che avanzano mentre noi restiamo indietro».

Gli altri paesi, certo. Perché anche dopo la scoperta del 2007 di Yamanaka, la propaganda sulle staminali embrionali non si è fermata. A inizio 2009, a soli tre giorni dall’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, la Food and Drug Administration (Fda) diede luce verde al primo studio clinico al mondo che usava tali cellule per curare le paralisi causate da lesioni del midollo spinale. «È il giorno che Superman aveva sempre sognato», scrisse Repubblica che imputò la morte nel 2004 dell’attore paraplegico Christopher Reeve al presidente Bush, colpevole di aver varato provvedimenti restrittivi sulle cellule ricavate da embrioni.

Dopo gli studi di Yamanaka, le decisione di Obama risultavano anacronistiche, ma nessuno (tranne, qui in Italia, il solito Angelo Vescovi) osò farlo notare. Come quasi nessuno notò che tra i grandi finanziatori della sua campagna elettorale c’erano state aziende che sulle embrionali avevano puntato molto. “Puntato” a Wall Street, s’intende.

IL COLONIALISMO BIOLOGICO. Come disse la Bellucci toccherà andare negli altri paesi, certo. Come il Sudafrica, dove, negli stessi giorni in cui la Fda apriva alle embrionali, l’arcivescovo di Johannesburg, monsignor Buti Joseph Tlhagale, ha denunciato il «colonialismo biologico» dei paesi industrializzati che utilizzano gli ovuli di donne africane per ricerche sulle embrionali. O come la Francia, dove i socialisti portano avanti una riforma che renda ancora più facile la ricerca sugli embrioni. Perché Nobel o non Nobel, l’umanità sta anche nell’occhio di chi guarda nel microscopio. E non c’è peggior cieco di chi vede un girino anziché un altro se stesso.

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