Dopo il disastro “Russiagate”, l’Fbi riprova a incastrare Trump
Che cosa cercava davvero lunedì l’Fbi a Mar-a-Lago a casa di Donald Trump in Florida? Secondo il Washington Post, documenti classificati mai restituiti dall’ex presidente alla Library di Stato relativi ad armamenti nucleari. Secondo altri, con la scusa di cercare tali documenti, l’Fbi stava dando la caccia a prove di un coinvolgimento del tycoon nell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio. Fino a quando il Dipartimento di giustizia o l’ex inquilino della Casa Bianca non renderanno pubblico il mandato di perquisizione non lo sapremo mai. Ma quel documento potrebbe presto essere di dominio pubblico: il ministro della Giustizia Merrick Garland, in un irrituale intervento che già di per sé conferma l’eccezionalità dell’operazione, ha detto di aver chiesto al tribunale del Southern District of Florida di metterlo a disposizione di tutti. Anche Trump ha dato il suo consenso.
Lo scontro tra Trump e Fbi
Se è vero che neanche un ex presidente degli Stati Uniti è al di sopra della legge, è altrettanto certo che un’operazione spettacolare e clamorosa come quella di lunedì non dovrebbe essere fatta senza solide prove su un qualche presunto e gravissimo crimine commesso da Trump.
Questo assunto, però, non può essere dato per scontato e i trascorsi tra il tycoon repubblicano e l’Fbi non sono rassicuranti. Tra il 2017 e il 2019, quando Trump era ancora alla Casa Bianca, l’Fbi ha infatti sprecato 675 giorni a cercare di dimostrare che Trump aveva vinto le elezioni grazie all’aiuto dei fantomatici hacker russi.
L’indagine sul Russiagate
Cinque anni fa il mondo dei benpensanti era ancora sconvolto e si scervellava per riuscire a comprendere perché gli americani avessero preferito Trump a Hillary Clinton. Invece di riconoscere e ammettere l’infinita serie di debolezze della candidata democratica, l’Fbi lanciò un’indagine per far emergere la collusione tra Trump e il Cremlino.
L’indagine era già partita nel luglio 2016, ma assunse nuovo vigore sotto la guida di Robert Mueller, incaricato di portarla avanti a partire dal maggio 2017 dopo che Trump licenziò l’allora direttore dell’Fbi, James Comey.
Gli hacker russi non c’entravano
Per i successivi 22 mesi i giornali si riempirono di titoli, prove “schiaccianti”, evidenze all’apparenza incontrovertibili sul “Russiagate”. Poi, dopo 675 giorni e 45 milioni di dollari spesi, Mueller affidò un rapporto di 448 pagine all’allora procuratore generale William Barr e al Ministero della giustizia, il quale lo riassunse così in quattro pagine per il Congresso: non ci sono prove che Trump e il suo entourage «siano stati complici degli sforzi della Russia per influenzare la campagna elettorale americana del 2016».
Fallita la grande inchiesta che avrebbe dovuto portare dritto dritto all’impeachment, i progressisti fecero di tutto per farlo fuori altrimenti (instabilità mentale, abuso di potere, ostruzione al Congresso), senza però riuscirci.
Il nuovo duello Trump-Fbi
Ora che si avvicinano le elezioni di Midterm va in scena un nuovo eclatante scontro tra Trump e l’Fbi. La speranza è che a scatenarlo sia qualcosa di più serio e comprovato del Russiagate.
Anche perché, se così non fosse, Trump avrebbe esattamente ciò che cerca: un ottima ragione per ricandidarsi, da perseguitato, nel 2024. Ma un’elezione trasformata in un referendum pro/contro Trump non è certo ciò di cui gli Stati Uniti hanno bisogno.
Foto Ansa
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