Don Fabio Baroncini, il mio secondo padre

Di Marina Corradi
21 Dicembre 2020
Riconosceva la mia domanda di senso, e io lo seguivo come si segue, in montagna, uno che cammina più sicuro di te, e di cui ti puoi fidare.

Milano, 21 dicembre. Oggi all’alba è morto il mio secondo padre. Con il primo, quello di sangue, che ho molto amato, mai una volta abbiamo pronunciato la parola “Dio”. Dio era un tabù fra noi: qualcosa di cui, come per un tacito accordo, non si poteva parlare. Il mio secondo padre è stato don Fabio Baroncini, classe 1942, “figlio” di don Giussani, montanaro della Valtellina.

Questi due padri si sono scambiati le consegne. Il primo, Egisto, è morto nel maggio del ’90. Un’estate di estrema solitudine. Poi, la notte di Natale sono uscita per la prima volta con un ragazzo appena conosciuto. Ero alquanto disassata. «Andrei perfino a Messa, se tu conoscessi un prete intelligente», ho detto. Lui mi ha portato a San Martino in Niguarda, e ho sentito la prima, brusca, omelia di don Fabio. Così è stato che in quella notte di Natale io ho incontrato insieme un altro padre, e mio marito. Credo sia stato un regalo del papà, Egisto: non ci faceva mai regali a Natale, e ha voluto rimediare.

E dunque esattamente trent’anni fa, sono, subito e istintivamente, diventata figlia di don Fabio. So che eravamo in molti. Era impossibile non riconoscere un padre in quell’uomo alto, severo, con una faccia che pareva scavata nelle rocce della sua Valtellina. A molti, e anche a me per anni, metteva un po’ di paura. Era di una franchezza tagliente, come il suo giudizio: netto, lucido. C’era da farsi male, con lui. Quanto, però, era più utile una sua parola secca, di cento parole di miele.

Andai, quella primavera del ’90, a un suo ritiro di Quaresima. Disse una cosa, per cui io che non piango mai mi misi a piangere. Era semplicemente una cosa vera sulla mia vita.

Lo andai a cercare. Fu freddo, quasi ostile. Tornai con mio marito, in un momento davvero difficile. Sempre di ghiaccio, ci liquidò in due parole. Nell’uscire allora, una strana fredda rabbia mi prese, e tornai indietro. Gliene dissi, calma, di tutti i colori. Lui, impassibile. Infine, uscendo, e ora davvero triste e a bassa voce: «Mi scusi, è solo che io mi aspettavo in lei uno che potesse abbracciarci». Mi voltai, la sua faccia era impallidita. Telefonò a mio marito: «Di’ a tua moglie di tornare da me, quando vuole». 

Da allora, per me don Fabio c’è sempre stato. Con mio marito lo chiamavamo “Il Nero”. Per l’abito, e per la faccia. Andavo a Niguarda sapendo di andare a prendere legnate. Regolarmente succedeva. Ogni tanto rispondevo a tono. Credo che questo gli piacesse. Era uno che amava la battaglia. Amava e mi insegnò a amare Dostoevskij: il cuore di un uomo, è un campo di battaglia. Non gli ho mai sentito pronunciare una parola moralista, mai la pretesa di un “dover essere” bravi senza una fondata, radicale ragione. Riconosceva la mia domanda di senso, e io lo seguivo come si segue, in montagna, uno che cammina più sicuro di te, e di cui ti puoi fidare. E quante volte l’ho sentito profondamente padre: uno passato, molto tempo prima, per il mio stesso sentiero (forse, chiusa la porta, sorrideva fra sé delle intemperanze di quella giovane donna, cui cominciava a voler bene).

Mi ha detto di tutto, in trent’anni. Eretica, pelagiana, atea. Matta, e, precisava, «come un cavallo». Sostanzialmente aveva sempre ragione lui. Riluttante, impuntata a volte come un mulo, lo seguivo. Tra il primo figlio e il secondo ne persi due, ai primissimi mesi di gravidanza. Ero furiosa con Dio. Il Nero, irremovibile: «Ogni dolore è per una grazia più grande». E, ora lo so, era vero. Ha cercato di insegnarmi la pazienza, la tenacia, la memoria di ciò che sono. Non ho ancora imparato. Però una cosa sicura me l’ha data: la certezza che ogni sofferenza va offerta a Dio, per gli altri. Altrimenti la sofferenza è come una massa di dolore cieco, stagnante. Se la offri, infine il dolore scorre, e defluisce.

Un giorno ho notato come le sue mani tremavano, nel dare la Comunione. Non gli ho chiesto niente. Lui non parlava della sua malattia. Ma negli ultimi tempi era ridotto in carrozzella, parlava a fatica, eppure ancora capiva perfettamente. Non ce l’ho fatta a tacere. «Ma come, come fa (gli ho sempre dato del lei) a sopportare tutto questo?». «Offrire», mi ha risposto. «Bisogna offrire tutto a Dio».

Che spaventosa obbedienza, e che certezza. Una certezza in Cristo assoluta. Una roccia. “No, io per il tuo sentiero non ci vengo”, pensavo fra me, negli ultimi tempi. Ma ora, non so.

Ora che tu sei morto, non sono più “figlia” per nessuno. Ora sono vecchia davvero, e sola. Ma, se mi guardo indietro fino a quella lontana notte di Natale, vedo mio marito qui accanto, ancora; e tre figli, e perfino, ora, incredibile, un nipote appena nato. Il mio sentiero, don Fabio, tuttavia mi spaventa. E non ho, io, le tue gambe da montanaro, e le tue spalle larghe, da portatore di Croce. (L’altro giorno sono venuta a trovarti, tu ormai quasi assente, e ti ho tenuto a lungo la mano. Strano, ora mi sembravi tu il figlio, e quasi un mio bambino).

Questa mattina, quando mi hanno detto, era ancora notte, la lunghissima notte del 21 dicembre. Ma tre ore dopo, al solstizio, il sole ha ripreso a risalire il suo arco. Sei morto nel giorno in cui la luce rinasce.

Ricordo come salivi in montagna. Con quel passo costante, uguale, indifferente al ripido o al piano. Un carro armato. Io arrancavo, e arranco, ma cammino. Grazie, don Fabio, di tutto, grazie di ogni tua parola. Ma vai ora, in Cristo, di cui mi hai reso certa. Lascialo andare, Signore, per le tue montagne.

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