Dna, 15 anni fa la sequenza completa. Cosa abbiamo rimediato da allora? Pochino, a parte una brutta “screeningite”
Carlo Petrini, autore di questo articolo tratto dall’Osservatore Romano, è responsabile dell’Unità di bioetica dell’Istituto superiore di sanità.
Sono trascorsi quindici anni dal 26 giugno 2000, quando Bill Clinton e Tony Blair annunciarono che, dopo anni di lavoro, con il Progetto Genoma Umano si era ottenuto il sequenziamento completo del genoma umano. Una buona dose di enfasi nell’annuncio contribuì a suscitare nel mondo intero entusiasmo (e qualche sovraeccitamento). I due politici paragonarono il risultato a «una svolta che porta l’umanità attraverso una frontiera in una nuova era», a un «trionfo epocale della scienza e della ragione», a una rivoluzione scientifica: come Galileo Galilei trovò «il linguaggio con cui Dio ha creato l’universo», così ora la genomica permette di conoscere «il linguaggio con cui Dio ha creato la vita».
Sebbene, in realtà, il sequenziamento non fosse ancora completo – mancava circa il 10 per cento, il tasso di errori era molto elevato e vi erano oltre 150 mila “buchi” – l’esaltazione nell’annunciare il risultato conseguito dal Progetto Genoma Umano fu anche motivata dall’intenzione di sminuire lo smacco subito sei mesi prima: il 10 gennaio dello stesso anno il multimiliardario John Craig Venter, proprietario della Celera Genomics (a Rockville), aveva annunciato di aver sequenziato, nei suoi laboratori, oltre il 90 per cento del genoma umano, con tempi e costi assai più contenuti rispetto al progetto di ricerca scientifica internazionale. Il Progetto Genoma Umano fu proposto nel 1986; fu approvato dal Congresso statunitense nel 1988 per una durata di quindici anni a partire dal 1991, con un costo stimato di tre miliardi di dollari e il coinvolgimento di diciotto istituti di ricerca nel mondo. Venter annunciò l’avvio della sua ricerca nel 1999 e ottenne il risultato con un investimento tre volte inferiore.
Il sequenziamento portò alcune sorprese. Per esempio si appurò che il genoma umano è composto da circa 30 mila geni (mentre le stime precedenti erano comprese tra 80 mila e 150 mila). In particolare, sollecitò gli interessi verso la medicina personalizzata. Venter sequenziò il suo proprio genoma e pubblicò la mappa completa dei suoi 23.224 geni, venendo a conoscenza — e con lui il mondo intero — che alcuni polimorfismi potrebbero renderlo suscettibile al comportamento antisociale, all’alcolismo, alla coronaropatia, all’ipertensione, all’obesità, all’insulino-resistenza, all’ipertrofia del cuore sinistro, all’infarto acuto del miocardio, al deficit di lipasi lipoproteica, all’ipertrigliceridemia, all’ictus e alla malattia di Alzheimer. Al momento, però, Venter gode di ottima salute.
L’evoluzione nelle tecniche è stata travolgente: oggi chiunque, rivolgendosi a una delle tante ditte commerciali che si sono lanciate nel business, con un migliaio di dollari può ottenere, in circa una settimana, il sequenziamento completo del genoma personale. Giuseppe Remuzzi, medico e scienziato di fama internazionale, nel 2014 lo ha fatto. Dopo aver ricevuto una relazione con la descrizione delle 172.115 varianti del suo genoma, di cui 15.459 rare e 83 potenzialmente predisponenti per alcune patologie – tra cui osteoartrite, calcolosi della colecisti, degenerazione maculare – ne ha tratto un’unica conseguenza: «Saperlo è stato inutile, ma ho cominciato a muovermi e a controllare quello che mangio».
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Occorre, infatti, essere consapevoli delle profonde differenze tra i vari tipi di test genetici. Mentre i test diagnostici riguardanti patologie che si trasmettono con il modello dell’eredità semplice sono precisi ed efficaci, dai test di analisi genomica globale derivano risultati assai incerti e di dubbia utilità clinica.
Poco prima del quindicesimo anniversario dell’annuncio del (quasi) completamento del Progetto Genoma, un altro importante evento ha richiamato l’attenzione sull’interesse degli studi sul genoma non solo ai fini della medicina personalizzata, ma anche per studi di popolazione: nel numero di maggio di Nature Genetics sono pubblicati quattro studi (che erano già stati anticipati il 27 marzo) effettuati dal gruppo DeCode Genetics, a Reykjavík, sul genoma della popolazione islandese.
Alcune caratteristiche rendono la popolazione dell’Islanda particolarmente adatta per studi di genomica: i 322 mila abitanti discendono da un unico piccolo gruppo insediatosi sull’isola circa mille anni fa; non vi sono stati significativi fenomeni di immigrazione; grazie alla tradizionale passione per le genealogie sono disponibili grandi alberi genealogici che coprono un intero millennio, e in particolare un ampio database chiamato Íslendigabók (libro degli islandesi). Tutto ciò spinse il Parlamento islandese ad approvare, il 17 dicembre 1988, una legge che autorizzò la raccolta e l’elaborazione dei dati sanitari e genetici dell’intera popolazione dell’isola con un meccanismo di consenso presunto: al cittadino non viene proposto di esprimere il consenso, ma gli si dà la possibilità di chiedere di essere escluso. Inoltre, venne attribuito a una compagnia privata (Íslensk erfðagreining, legata a DeCode Genetics) l’onere di sostenere i costi di costruzione dell’infrastruttura, con annesso il diritto esclusivo di licenza nella raccolta, nel trattamento, nell’impiego a scopo di profitto dei dati.
Gli studi ora pubblicati si basano sul sequenziamento completo del genoma di 2.636 islandesi e sul confronto con una sequenza parziale del genoma di altri 104.220 abitanti dell’isola. Ne è derivata una grande mole di informazioni non solo sulle caratteristiche genetiche della popolazione islandese, ma anche, più in generale, sul genoma umano. Inclusa la presunta identificazione di un unico antenato dell’attuale specie umana, risalente e 290 mila anni fa.
Consenso, utilità clinica, proprietà dei dati, eventuale sfruttamento commerciale, utilizzo dei campioni biologici sono soltanto alcune delle domande su cui ci si interroga. Ventuno anni fa il Journal of Medical Ethics, analizzando il dilagante utilizzo – e spesso abuso – di screening di vario tipo, si domandava anche se la “screeningite” fosse una malattia curabile. Oggi l’epidemia pare dilagante.
Foto analisi Dna da Shutterstock
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