Diventeremo cittadini di uno Stato mammone?

Di Angelo Erbacci - Giuseppe Monteduro
01 Aprile 2020
Nella convulsa discussione sulle misure da adottare per il contenimento del virus, manca un dibattito sul “come ripartire”. Spunti per iniziare

Con grande piacere abbiamo letto l’analisi acuta e puntuale di Giovanni Cagnoli, pubblicata nei giorni scorsi su tempi.it. Come osservato in quell’articolo, le misure di restrizione e chiusura sinora adottate quale risposta alla crisi sanitaria non possono che sembrare giuste e condivisibili (seppur meriterebbero un approfondimento perché da più parti si richiama al fatto che probabilmente si poteva fare meglio e anche prima, soprattutto in termini di comunicazione e prospettiva). 

Al contempo concordiamo che oggi il principale obiettivo della politica sia quello di trovare un “equilibrio” tra emergenza sanitaria ed emergenza economica. È evidente come sinora sia mancata una congrua valutazione delle conseguenze economiche e finanziarie che questa crisi avrà per tutta la collettività, soprattutto in termini sociali e di convivenza, anche per la popolazione non direttamente toccata dal contagio sanitario ma inevitabilmente coinvolta da quello economico. Nella convulsa discussione sulle misure da adottare per il contenimento del virus, non è ancora emerso infatti un dibattito proficuo sul “come ripartire”. Su questo tema non basteranno singoli provvedimenti definiti in maniera unilaterale dal Governo, ma piuttosto sarà indispensabile una progettazione di dettaglio, concreta ed attuabile, definita di concerto con le parti realmente coinvolte nella vita economica del Paese (imprenditori, professionisti, corpi intermedi…) che ad oggi purtroppo non è ancora visibile. D’altro canto, come recentemente denunciato da diversi osservatori, uno degli indicatori più evidenti del grado di declino decisionale della nostra democrazia è la quasi totale inattività degli organi parlamentari. 

Quali rischi e conseguenze ci apprestiamo ad affrontare nel caso in cui questo “equilibrio” di risposte non fosse raggiunto? Quali le principali problematiche? Proviamo ad inquadrarne alcune, su larga scala:

  • Emergenza di liquidità. Lo status di restrizione e chiusura attuale, soprattutto se prorogato, genererà in primis (come già sta avvenendo) importanti problematiche di liquidità (disponibilità di cassa) per tutte quelle attività economiche che settimanalmente e mensilmente fanno affidamento sulla liquidità generata dalle vendite per poter pagare dipendenti e fornitori (affitti, materie prime, …). Si pensi ad esempio ai commercianti, ai liberi professionisti, ma anche a diversi settori industriali con strutture retail, come ad esempio il settore moda che necessita di reinvestire subito gli introiti delle vendite dei negozi per poter pagare i fornitori e per finanziare lo sviluppo delle collezioni future. Ad oggi tutto questo è fermo.
  • Emergenza di competitività. La chiusura delle aziende genererà inevitabilmente dei ritardi competitivi per tutte quelle realtà inserite in filiere produttive internazionali, per il semplice fatto che clienti e fornitori preferiranno dare precedenza ai competitors di Paesi internazionali meno impattati dagli effetti della pandemia, poiché ritenuti più affidabili o semplicemente perché aperti ed operativi, cioè in grado di soddisfare la loro richiesta di produzione senza eccessivi ritardi, anche solo in termini di pagamento o consegna. Su questo l’interesse economico e nazionale della Cina non è da guardare con superficialità, anzi: la grande forza economica della Repubblica Popolare, sta già approfittando e ne approfitterà ancor di più delle crisi sanitarie dell’Europa e degli Stati Uniti.
  • Emergenza di finanza pubblica. Nel medio periodo c’è il rischio concreto che queste difficoltà si traducano in una reale problematica di finanza pubblica. La riduzione della produzione e la chiusura (seppur temporanea) delle attività economiche genererà inevitabilmente un calo di fatturato per i professionisti e le imprese. Questa dinamica avrà quale conseguenza la riduzione delle entrate dello Stato derivanti da tasse e imposte (si riduce infatti la base imponibile di imprese e cittadini). Questo effetto inoltre sarà accentuato nel breve periodo anche dal calo dei consumi e dalla riduzione che esso produrrà sulle entrate da Iva e da accise (carburanti, energia, …). Il rischio concreto è che nel medio periodo si generi un problema di liquidità (e quindi di solvibilità), che si tradurrebbe nell’impossibilità per lo Stato di adempiere ai suoi obblighi più concreti: pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici (circa il 15% degli occupati), pagare le pensioni (circa il 30 per cento della popolazione), ma anche sostenere le spese per acquisti della pubblica amministrazione (come ad esempio macchinari, attrezzature e presidi medici). Infatti recentemente il presidente dell’Inps Fabio Tridico ha ammesso di avere a disposizione somme di liquidità per il pagamento delle pensioni fino al prossimo maggio, salvo poi rettificare ammettendo la possibilità di ricorrere a fondi di salvaguardia della Tesoreria Generale dello Stato. Più in generale, per capire quanto lo Stato dipenda dai nostri contributi, basti pensare che la dinamica (mai abbastanza conclamata) di versamento delle tasse per aziende e liberi professionisti prevede che oltre a saldare le tasse dell’anno nell’anno fiscale in corso si debbano versare anche gli anticipi (quasi il 95% del totale) delle imposte dell’anno fiscale successivo. In altre parole, i professionisti e le imprese fanno da cassa allo Stato, anticipando di un anno le future tasse per attività economica non ancora svolta.
  • Il problema del welfare: in queste condizioni, che si protrarranno ancora, la fetta di popolazione che necessiterà di interventi e sostegni da parte del sistema di welfare sarà enorme a fronte di uno Stato che, come appena visto, avrà meno introiti e con enorme difficoltà a emettere debito pubblico (data la non proprio amichevole collaborazione che vige tra gli stati dell’Ue). Il welfare occidentale (soprattutto nella parte di ammortizzatore sociale e di garanzia), nato per fronteggiare situazioni di marginalità rischia il collasso d’amblè. Garantire ad un’ampia fascia di popolazione l’aiuto necessario per vivere diventa quanto mai difficile, se le entrate si vanno a ridurre: sono già enormi i problemi di sicurezza sociale in tempi normali (si pensi al tema dell’affitto che grava non solo sulle famiglie a basso reddito ma anche su quelli con reddito più elevato ma legato a contratti di lavoro precario o comunque a termine). Aggravio maggiore è già dato dalle spese legate al reddito di cittadinanza che non hanno prodotto nuovi ingressi nel mercato del lavoro, se non in termini marginali. Inoltre, non va dimenticato che la crisi sta colpendo la parte di Paese in cui c’è la maggiore occupazione con il rischio che gran parte delle persone che vivono e lavorano in quei territori si possano ritrovare d’improvviso con spese a carico (mutui, affitti, rette scolastiche) ma senza un lavoro e quindi un reddito. Con la crisi economica che si produrrà e l’aumento della disoccupazione, è quanto mai indispensabile rivedere e ripensare la sicurezza sociale perché dovrà fornire risposte anche a tanti che fino ad ora avevano provveduto autonomamente al proprio sostentamento. 

Trovarsi in una tale situazione di emergenza economica senza aver prima progettato una possibile strategia di risposta (ovvero di reperimento di mezzi alternativi di sostegno) esporrebbe il Paese ad un rischio ancor maggiore: la necessità immediata di trovare liquidità sui mercati finanziari, con l’enorme rischio di speculazione, pagando così un costo altissimo in termini di interessi. Di fatto questo è quello che è già successo più volte nella storia italiana, ragion per cui l’ammontare annuo della sola quota di interessi passivi (non della quota capitale) che lo Stato deve rimborsare annualmente ai propri debitori è di circa 70 miliardi di euro (quasi il 9 per cento della spesa pubblica). Per capire quanto è incidente questo valore sull’economia dello Stato, basti pensare che il valore complessivo di soldi che lo Stato trasferisce al sistema universitario per il suo funzionamento è di soli 7,4 miliardi di euro. 

Allora che cosa fare? Come già evidenziato una delle priorità è di avviare da subito un dibattito funzionale e pragmatico su come riaprire l’attività economica, coesistendo con il rischio sanitario. Un esempio è la proposta di alcuni economisti accademici italiani pubblicata recentemente sul Corriere della Sera. Proposta in parte non condivisibile perché troppo impositiva e poco differenziante tra i settori, ma che ha perlomeno il merito di essere una prima proposta. Il luogo consono per lo sviluppo di questo dibattito non può che essere il Parlamento italiano, che tuttavia ad oggi appare molto lontano dall’essere impegnato su queste preoccupazioni. Però non c’è alternativa: contenere e governare l’emergenza non può ridursi “soltanto” ad affrontarla, ci vuole un’idea chiara sul dopo per capire che modello di società e di economia ci attende.

Grillo ha proposto il reddito universale, ossia più assistenzialismo e meno impresa, meno società (una sorta di reddito di cittadinanza allargato). Vorremmo aprire un dibattito anche per comprendere in che modo riformulare i compiti dello Stato, che modello di mercato può rispondere ai problemi che emergeranno e che spazio ci sarà per la società (che è cosa ben diversa dal mercato), laddove ci si attende, come da più parti avanzato, che solo lo Stato può salvarci.

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