Discutiamo del velo senza barattare l’identità con la sicurezza

Vogliamo capire un po’ meglio questa questione del velo? Anche perché siamo in un paese che di velo se ne intende: molte donne lo indossano ancora, a Messa, ai funerali; le siciliane, anche giovani, spesso lo amano e lo mettono; le contadine delle Alpi non disdegnano adornarsene alla festa del paese; le donne eleganti hanno enormi foulard che alzano sulla testa, e un po’ sul viso, al primo alzarsi di vento. Allora perché regalare al fondamentalismo islamico un sapere molto femminile (ma anche maschile: pensiamo a cavalieri, corpi speciali, monaci, e ai loro cappucci e velature): quello di velarsi, di coprire parte del corpo e del capo, di scegliere cosa lasciar vedere, a seconda dello stato d’animo, e delle circostanze?
Non appiattiamoci tutti sull’esigenza poliziesca di “dover vedere il viso”: valida in questi tempi di terrorismo, ma non siamo tutti agenti in servizio permanente effettivo. Loro, le forze di polizia, devono poter vedere, quando serve, ma spero che non si arrivi a incarcerare gli abati che rientrano incappucciati dopo Compieta, o una bella signora, cristiana o islamica non importa, in vena di riservatezza. L’anti velismo non è solo rischioso perché, come ricorda Baget Bozzo, si rischia l’autocastrazione identitaria alla francese: per vietare il velo proibiamo tutti i simboli religiosi, e togliamo i crocefissi. È rischioso perché nega un’esigenza umana, legata agli stili espressivi della bellezza, e della comunicazione non verbale: quella di poter scegliere che parte del volto mettere in risalto; se tutto, oppure gli occhi, oppure tutto il capo, ma schermandolo, appunto, dietro un velo, o una copertura. Cinquant’anni fa il presidente della Tunisia, l’islamico Habib Bourghiba, proibì alle donne di mettere il velo. Finché visse, il divieto venne più o meno rispettato, anche se mai totalmente. Dalla sua morte in poi le donne tunisine, soprattutto giovani, sempre più spesso preferiscono velarsi.
Non credo che sia tutta colpa del fondamentalismo. Il fatto è che le giovani tunisine hanno scoperto, come sapevano benissimo le loro nonne, e come era stato proibito di pensare alle loro madri (in nome di una “liberazione femminile” molto autoritaria), che una donna velata può essere più libera, e sentirsi più bella, di una “svelata”. Le sue occhiate, ad esempio, sono decifrabili solo dalla persona cui sono dirette, non da tutto il vicolo, o il bazar. Il suo incedere, velando il viso, diventa più interessante. Il viso, coperto, si riveste del fascino del mistero. C’è naturalmente molta più sensualità, e più tensione tra uomo e donna, in una medina araba, che in uno stabilimento balneare zeppo di corpi scoperti. Allora? Forse è meglio lasciare che le donne (e tutti gli altri interessati alla questione, compresi i bambini coi loro amati cappucci, da cui faticano a liberarsi anche sui banchi) si tengano tutto: la libertà di scoprirsi e svelarsi, e il sapiente, antichissimo gioco della velatura e dello svelamento.
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