
Il dilemma di Israele dopo l’atroce attacco di Hamas

Si chiama Yaffa Adar, 85 anni. Dignitosa sulla jeep dei terroristi di Hamas che l’hanno rapita, una coperta rosa sulle ginocchia. La foto l’hanno scattata i miliziani, è filtrata sulle reti dell’estremismo islamico. La nipote l’ha riconosciuta, l’ha rilanciata su Facebook. «Salvate mia nonna» e l’immagine è diventata virale, ben più delle orrende foto e dei filmati di massacri e vilipendio di cadaveri di soldati e civili che affollano le reti.
Yaffa Adar sostiene lo sguardo. Ha fondato sessantacinque anni fa un kibbutz nel deserto, ai confini con quella che sarebbe diventata poi l’orribile Striscia di Gaza. Allora era tutto diverso, Israele inseguiva il sogno di una nazione per un popolo, i nemici erano alle frontiere, altri paesi, altre nazioni con un esercito che poteva fronteggiare, il Davide israeliano aveva sconfitto il Golia arabo. I palestinesi erano fuggiti, in maggioranza lasciando le case chiuse e portandosi via le chiavi che ancora oggi sono il simbolo, ostentato in tutta la Palestina e venduto anche nelle bancarelle dei suk, della promessa di ritornare. È la storia di questi ultimi sessant’anni, fatta di trattati di pace con i paesi arabi e intenzioni mai realmente rispettate di mutuo riconoscimento tra Israele e palestinesi.
Così sono cresciute le generazioni di miliziani di Hamas
In quello spazio di non definito accordo sono cresciute le generazioni dei miliziani, sempre più radicali. Gli eserciti dei paesi arabi non minacciano Israele, le milizie sì. Il pericolo non è l’estinzione dello Stato israeliano (che per Hamas e Jihad è e resta solo l’“entità sionista”), ma la definitiva cancellazione della speranza che questo possa esistere in pace e sicurezza.
Dopo la seconda Intifada Israele ha costruito i muri intorno ai territori, ha aumentato sempre di più gli insediamenti, visti come un presidio da sostenere militarmente ma anche come una presenza avanzata, un outpost, da cui controllare il terrorismo. Il vero pericolo, per i governi israeliani, era l’Iran, l’incubo della minaccia nucleare di Teheran, gli scienziati dell’istituto Weizmann concentrati a controllare le emissioni di uranio arricchito sopra i siti atomici iraniani, il Mossad, il servizio segreto, impegnato a braccare gli scienziati che aiutavano l’Iran, a tracciare i movimenti delle forniture al paese, in barba all’embargo internazionale.
I militanti palestinesi restavano un incubo, in qualche modo, controllato: con i muri, i raid nelle città della Cisgiordania, l’arresto o la “neutralizzazione” dei capi delle fazioni. Gli attacchi mirati sulle basi in Siria dove si rifugiavano i leader.
Lotta in nome dell’islam, contro il patto Israele-sauditi
Non è l’ora di analisi politiche sempre confuse e contraddittorie in un paese dove gli accordi cambiano in fretta e i governi si reggono su uno o due voti, ma è significativo che Hamas abbia chiamato la sua offensiva “Al Aqsa Flood”, alluvione di Al Aqsa, la spianata delle moschee, dove da oltre un anno il ministro della sicurezza israeliano, l’ultraestremista Ben-Gvir, leader di Potere ebraico, va a camminare rivendicando il diritto per gli ebrei di tornare a pregare il quel luogo sacro ai musulmani ma anche al giudaismo: lì sorgeva il tempio di Salomone. Il nome dato da Hamas alla sua atroce offensiva risuona alle orecchie degli estremisti musulmani come un invito alla lotta in nome dell’islam, mentre i paesi islamici si preparano a nuovi accordi con Israele, e il patto con l’Arabia Saudita, paese leader di tutto il mondo sunnita, era alle viste.
La sicurezza di Israele nei suoi confini
Israele si sentiva sicuro nei suoi confini, fiducioso nel suo esercito. Benché più volte i militari di leva avessero dato segni di stanchezza, per non dire di esasperazione. In tutti i sensi, sia nelle reazioni quando attaccati o nei raid nei campi palestinesi, e in più occasioni semplici soldati sono stati deferiti alla corte militare per eccessi di difesa (spesso ma non sempre assolti), sia in atteggiamenti tranquilli e rilassati, troppo rilassati, nelle zone da presidiare. Oppure chiamando le famiglie a casa, raccontando troppe cose, postando selfie allegri o imbronciati per la durezza del servizio militare. Sono ragazzi si diceva, ma più volte gli ufficiali avevano segnato quanto stava accadendo e i giornali israeliani ne avevano parlato sempre di più, spesso sollecitati dai genitori.
Gli stessi che ora devono convincere i loro figli che bisogna tornare a combattere sul serio, che bisogna difendere Israele, il paese che tutto il mondo ebraico vede come l’unico baluardo alla salvezza del popolo di Israele. In quei segnali forse i terroristi hanno visto che era il momento giusto per colpire. Proprio durante le vacanze ebraiche. Colpire a colpo sicuro quei ragazzi tranquilli che avevano organizzato un rave alle porte di Gaza. «Eravamo bersagli di un campo di tiro», hanno detto i ragazzi.
Nessuno si è accorto dei terroristi che sfondavano la rete
Nessuno si era accorto di centinaia e centinaia di terroristi che stavano sfondando la rete che cinge Gaza. Nessuno si era accorto di una operazione programmata da tempo contro i venti kibbutz attorno alla Striscia. Ed ora Israele è di nuovo di fronte all’ennesimo dilemma: mostrarsi spietato e implacabile? E gli ostaggi, vero ostacolo per un popolo che vede in ogni vita umana la salvezza del mondo intero? La mente di tutti torna alla 85enne Yaffa. I terroristi hanno risposto beffardi al post della nipote Adva: «Non ti preoccupare, tua nonna è felice, è la prima volta che vede uomini veri».
Quando Yaffa costruiva il kibbutz con le sue mani il fondatore dello Stato di Israele, Ben Gurion, profetizzò: dobbiamo scegliere due tra tre opzioni: essere uno Stato Grande e sicuro, essere ebrei, essere democratici.
E ora tutti sono ostaggi
Un Israele grande e democratico non può essere solo ebreo perché deve fare i conti con i tre milioni di arabi che vivono al suo interno, se grande ed ebreo non può essere totalmente democratico perché i non ebrei non potranno essere assimilati, se ebreo e democratico non potrà essere grande perché dovrà dare una parte del territorio agli arabi palestinesi (la famosa opzione “due Stati per due popoli”).
Di fatto finora Israele ha scelto di trattare con i paesi arabi (con successo), fino a ignorare il problema palestinese isolandolo con muri e trincee. Ma non è bastato. Come è potuto accadere? Come sempre non c’è “una” risposta, ma tante possibili spiegazioni che si sommano e spesso si contraddicono, in una terra dove il pensiero non è mai unico e lineare. Dove spesso la linea dritta è un arabesco, dove la linea curva della mezzaluna si oppone agli spigoli del Megen David, la stella di Davide. Ognuna di queste linee passa sopra corpi umani, storie di persone. Yaffa potrebbe essere la nonna di tutti, e anche dei trecentomila bambini palestinesi richiusi nella Striscia di Gaza, dove sono stati portati a forza altri bambini ebrei. E tutti sono ostaggi.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!