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Home Società

L’assurda discussione su chi ha più o meno diritto di parlare nei talk show

Liti, casi mediatici che oscurano l'oggetto dell'analisi, accuse reciproche e clan che pretendono competenza a fasi alterne. Qualche idea per uscire dalla polarizzazione e tornare al dibattito intellettuale

Lorenzo Castellani
28/03/2022 - 5:57
Società
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tv talk show

C’è grande discussione in questi giorni in Italia su chi abbia diritto o meno a partecipare al dibattito pubblico, sui criteri per selezionare ospiti ed esperti, sui limiti della libertà di espressione. La radice di questa discussione genera i sentimenti e le reazioni peggiori. Non si dovrebbe discutere di chi possa partecipare al dibattito televisivo, ma degli argomenti e delle idee che in esso vengono portati.

La televisione e i talk show occupati dai clan

I programmi vengono realizzati da autori e giornalisti, loro è la responsabilità della qualità del discorso pubblico e dell’allestimento dell’ambiente in cui la discussione avviene. Gli editori in definitiva sono liberi di scegliere, ma non si possono poi incolpare soltanto gli attori, ingaggiati dall’impresario teatrale, se lo spettacolo è penoso. Naturalmente nessuno vuole essere così ingenuo da pretendere di trasformare  la prima serata in un convegno scientifico ma è evidente che forme di personalizzazione del dibattito, accuse reciproche e litigi tra partecipanti, polemiche politiche sul servizio pubblico e casi mediatici vari, che oscurano l’oggetto e l’argomento che si dice di voler affrontare, sono costruzioni ricercate da chi ha in mano i talk show o sono frutto di reazioni scomposte di una politica che pretende di scegliere come regolare il dibattito pubblico a seconda della propria convenienza.

In questo contesto, in cui certe derive sono incentivate, non è meno avvilente l’approccio degli ospiti che sono, non c’è da dimenticarlo, l’espressione della classe dirigente italiana. Atteggiamenti caratterizzati da narcisismo, protervia, incapacità di dialogo, ricerca continua dello “scontro di civiltà” su ogni questione. Impressionante è anche l’atteggiamento clanistico che ci si para davanti ogni volta che si accende la televisione. Una divisione netta amico-nemico che impedisce ogni dibattito garbato, detesta il pluralismo, si organizza in gruppetti settari, ripudia la dialettica. È il giacobinismo a dominare il nostro discorso pubblico, dove è precluso qualsiasi atteggiamento borghese e liberale improntato a una dialettica hegeliana fondata su tesi-antitesi-sintesi.

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La competenza usata per squalificare il nemico

Preoccupante anche questa continua evocazione della competenza come criterio di ammissione al dibattito. La conoscenza specialistica è oramai ridotta ad un mezzo per squalificare ì curriculum del clan opposto. Appare spesso una scorciatoia per evitare una più profonda e faticosa discussione nel merito. Senza contare che questa idolatria della competenza è un ulteriore segnale di giacobinismo: ci sarà sempre qualcuno più competente di chi si proclama tale pronto a squalificarlo e sostituirlo a sua volta. Se si segue questo ragionamento, di conseguenza, i talk show dovrebbero essere appannaggio solo di iper-specialisti e giornalisti sul campo. D’altronde non si può predicare la competenza per i nemici e l’approssimazione per gli amici.

Di conseguenza le trasmissioni dovrebbero liberarsi di direttori di giornali, giornalisti generalisti, filosofi, direttori di think tank e di chiunque non abbia un profilo iper-specialistico rispetto al tema trattato. Chi è disposto ad accettare questo criterio stringente che metterebbe fuori gioco gran parte degli stessi propugnatori della competenza nel dibattito mediatico? Chi, in nome della specializzazione, vuol rinunciare ad un dibattito intellettuale più ampio del settore specifico in trasmissioni seguite da milioni di persone? È evidente che non sia soltanto quella della severa specializzazione la strada per la civilizzazione del dibattito pubblico poiché produrrebbe soltanto un restringimento eccessivo del campo della discussione.

Uscire dal “chi” ed entrare nel “cosa”

Due soltanto, in definitiva, sono le strade realisticamente percorribili ed entrambe hanno più a che fare con l’educazione e la morale che con il diritto e i contratti: da un lato una moderazione responsabile e spontanea di chi disegna le trasmissioni televisive e ne costruisce la trama. La crisi, anche di ascolti, dei talk show non si risolve con la lite da condominio presentata come scontro di civiltà. Dall’altro una cultura del dibattito e della dialettica che abbandoni la dinamica di screditamento personale dell’avversario, il fare clanistico polarizzante e l’auto-incensamento degli ospiti e incentivi invece la pura confutazione di argomenti e posizioni. Bisogna insomma uscire dal “chi” ed entrare nel “cosa” e “come”. Ma la malmostosa, clanistica e sempre più schizofrenica classe dirigente italiana è davvero pronta a fare questo passo?

Tags: espertiRussiatelevisioneUcraina
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