Squalo chi legge
Di certe cose solo i russi sanno parlare
Questo articolo fa parte di “Squalo chi legge”, newsletter settimanale di recensioni di libri, consigli per la lettura, testi da tenere sul comodino liberamente scelti dalle firme di Tempi. Più qualche stroncatura. Una indispensabile miscellanea di opere nuove, in uscita o ripescate, alcune famose, altre sconosciute o magari dimenticate, ognuna da leggere (o da cestinare) per un motivo preciso.
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Da oltre dieci anni leggo solo, quasi esclusivamente russi. Innamorato e tramortito dalla scoperta (riscoperta dopo antiche letture adolescenziali) dei racconti di Čechov, mi ero buttato a rileggere i cosiddetti autori dell’età dell’oro. Tolstoj, Dostoevskij, Turgenev. Non dovevo perderne neanche una pagina. E poi giù a discendere per li rami tutti gli autori dell’età d’argento. E Babel, e Oleša, Bulgakov, Sologub, Ėrenburg, Belyj, Kataev, Bunin, Gogol’, Gelasimov, Dovlatov. Mille e mille ancora. Persino tutto Gor’kij, comunista realizzato ma scrittore gonfiato.
Perché questa ostinazione? Lo confesso, più discendevo per li rami e sempre più spesso trovavo ciofeche e sempre meno spesso sentieri di bellezza. Ma tant’è. Bastava l’accenno di un capolavoro (Il demone meschino, Sologub), o la possibilità di gettare uno sguardo originale su quel mondo disperatamente vivo del dopo Rivoluzione bolscevica (Invidia, Oleša; La mia corona di diamanti, Kataev), e l’antica passione si ridestava.
Era, paro paro, la sete inesauribile degli amanti che, nell’ossessività della ripetizione, cercano disperatamente lo splendore dei primi bagliori. Ma è che i russi possono parlare di anima, di demoni, di peccato, di salvezza universale e di perdizione personale, di resurrezione, di compassione, di pianto su di sé e sul mondo. I russi ne possono parlare ed è come se parlassero del cucchiaio che è lì sul tavolo. Insomma, gli autori russi parlano del cucchiaio e, parlando del cucchiaio, parlano di me. Il vero protagonista dei loro romanzi sono io, sono i miei amici, e il mio e il loro destino.
Qui in Occidente, in Europa a essere più precisi, salvo alcune, poche, notevolissime eccezioni, fatti salvi i grandi classici del passato, è come se tutto ciò fosse impedito, posticcio, artificioso; nel caso, quando mai, ci dovessimo imbattere in un tentativo di raccontare quel noi di cui «tutto cospira a tacere […] un po’ come si tace un’onta, forse un po’ come si tace una speranza ineffabile», ci troveremmo davanti più a un oggetto da analizzare, un corpo estraneo da esaminare, che non a un destino da compatire. Chi ne parlerà? Flaubert? Zola? Proust che ci mette centinaia di pagine per raccontare il bacio della buonanotte che sua mamma non gli ha dato? Thomas Mann per essere credibile ha dovuto riproiettare queste questioni a millenni di anni fa e andare a ripescare l’epopea di Giacobbe con Giuseppe e i suoi fratelli. Oppure ha dovuto limitarsi a racconti brevi (Il piccolo signor Friedman), oppure ha dovuto camuffare la demonicità e il suo fiato gelido con la schizofrenia (Doctor Faustus, che, detto tra noi, per l’amor di Dio sempre capolavoro è).
Esagero? Sono vittima di un’infatuazione troppo esagerata per essere vera? Permettetemi di estrarre con la pinzetta un capello da Memorie del sottosuolo di Dostoevskij:
«Ci sono, nei ricordi di ogni persona, certe cose che non si dicono a tutti, forse solo agli amici. Poi ce ne sono altre che non si dicono nemmeno agli amici, forse solo a se stessi, ma in segreto. E ce ne sono, infine delle altre che una persona ha paura di confidare anche a se stessa. E più uno è una persona come si deve, più ne ha di queste cose».
Eccola lì, squadernata sul piatto quasi fosse un uovo à la coque. Disarmante, tanto è vera, no? E dove andate a trovarne di cose così?
Fëdor Dostoevskij, Memorie del sottosuolo, 1864
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