Desiderate tutto. Desiderate il vero

Di Giovanni Maddalena
24 Settembre 2018
Migliaia di studenti a battagliare sulla natura totalizzante di un’energia che i filosofi hanno cercato o di sopire o di lasciare andare. Cosa c’entra il cristianesimo con tutto ciò? L’“occasione” delle Romanae Disputationes

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Tratto dal numero di Tempi di settembre

Romanae Disputationes è il nome di un concorso filosofico per studenti delle superiori nato dalla passione per la sua materia del professore di liceo Marco Ferrari. È così vero che un uomo solo può cambiare la storia, piccola o grande che sia, che l’idea di Ferrari nei suoi sei anni di attività ha portato 1.000 studenti all’anno a Roma per la sua fase finale e ha coinvolto finora circa 12.000 studenti e 600 classi nella sua preparazione.

Una piccola grande iniziativa, nata quando Ferrari, ora docente presso il Liceo Malpighi di Bologna, aveva cominciato a insegnare presso il liceo Sant’Orsola di Roma. L’idea è semplice e si muove nel solco dell’altra meritevole iniziativa, sul versante letterario, dei Colloqui fiorentini: spesso i docenti delle superiori sono bravi e appassionati e, ancora più spesso, e contrariamente a ciò che si dice sbadatamente, i temi di studio interessano gli studenti che in essi trovano soggetti e problemi che li riguardano.

Tanto più ciò è vero per la filosofia che, nelle sue variegate forme, interroga le opzioni decisive del rapporto fra l’uomo e la realtà. Se si mettono docenti e studenti a lavorare tutto l’anno su un tema, dando loro la possibilità di ascoltare le voci più avanzate o specializzate in materia, e li si inserisce dentro una manifestazione che premi il merito e diventi allo stesso tempo possibilità di incontro e di festa, la passione per la filosofia – cioè per il pensiero e il suo rapporto con la realtà – tornerà a essere protagonista della vita di tante persone, uscendo dall’estraneità spesso ingiustamente creata da una mentalità riduzionista che fa coincidere l’utile con il quantificabile economico e sociale.

Pensiero, agonismo, gioco, residenzialità, expertise elevato e precisione organizzativa formano un insieme nuovo e originale nel panorama culturale italiano e, giustamente, questa iniziativa ha attirato persino l’attenzione dei media mainstream in questi anni. Il tema di questa edizione è il desiderio, ma prima di focalizzarci sul nocciolo della questione filosofica dell’anno occorre cogliere il nocciolo della questione dell’importanza delle Romanae Disputationes per un cristianesimo vissuto seriamente nella scuola italiana. Non che l’iniziativa abbia nulla di confessionale o clericale, come dimostra la varietà dei partecipanti (e dei vincitori), dei relatori, del comitato scientifico nonché della direzione dell’“Associazione Tokalon”, promotrice delle Romanae Disputationes, ma certo l’idea nasce da un cattolico e da una rete di professori di liceo la cui passione per la filosofia e le filosofie è legata all’educazione e all’esperienza cristiana.

Valorizzare ogni esperienza
Il primo nocciolo della questione riguarda dunque la filosofia e il cristianesimo. Che cosa li lega? Perché è così importante la storia del pensiero per il cristianesimo che non è una filosofia e che, come diceva Wittgenstein nelle sue considerazioni critiche, «non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è accaduto e accadrà all’anima umana, ma una descrizione di un evento reale nella vita umana»?

Ovviamente è una domanda su cui sono stati scritti milioni di libri, e sarebbe a sua volta un buon tema per il gran lavoro degli studenti delle Romanae, tuttavia – in una battuta – val forse la pena ricordare, come hanno fatto spesso gli ultimi Papi, che il cristianesimo è una storia particolare, la storia di Gesù di Nazareth, che nasce dentro la tradizione, la mentalità e la cultura semitiche, ma che parla da subito a tutti in tutto il mondo assumendo e trasformando le categorie del pensiero greco e romano con un’attitudine universale che manterrà poi nel rapporto con ogni cultura in cui si imbatterà. Questo atteggiamento è decisivo per distinguere il cristianesimo da una setta.

Se una storia particolare per la sua comprensione facesse a meno del pensiero e delle sue categorie per affidarsi alla pura esperienza empirica dei singoli, essa rimarrebbe una setta il cui linguaggio può essere compreso solo dai suoi adepti. Chi ha avuto modo di frequentare persone appartenenti a qualche forma di setta e li ha interrogati su qualche particolare credenza o legge interna si sarà imbattuto in risposte che alla fine consistono sempre nell’affermare che chi non vi appartiene non può capire. Si tratta in questo caso di esperienzialismo, ossia ideologia dell’esperienza e non del richiamo a sottomettere la ragione all’esperienza di cui parlava Jean Guitton.

Il cristianesimo ha sempre fatto ogni sforzo per comunicare la storia particolare che doveva annunciare e i suoi valori inerenti, ossia quanto quella storia riteneva buono, giusto e vero, secondo categorie comunicabili e comprensibili alla ragione di chiunque e, quindi, che rispettassero la ragionevolezza e la logica – intesa nel senso più ampio possibile – degli esseri umani. Se così non fosse, esso farebbe appello ad altri aspetti, più soggettivi e manipolabili dell’essere umano. Non è un caso che le frange più radicali del protestantesimo, spesso diffuse negli Stati Uniti, abbiano molte volte fatto riferimento alla sola scrittura, cercando di eliminare – per quanto possibile – il rapporto con le categorie filosofiche greco-romane, e, così facendo, siano incorse in varie forme di richiamo all’“entusiasmo” come prova e verifica del cristianesimo, animate sì dalla buona intenzione di ri-esistenzializzare quanto divenuto per loro arida dottrina, ma ottenendo il risultato opposto di avere da un lato un cristianesimo sentimentale e, dall’altro – visto che poi vivere bisogna – dell’assumere nella vita quotidiana categorie di pensiero totalmente estranee al cristianesimo.

Il corollario di tutto ciò è che, come ben mettono in luce le Romanae Disputationes, il cristianesimo non ha un pensiero unico e non sposa in modo assoluto nessuna filosofia particolare, sebbene ne raccomandi e porti ad esempio alcune così come metta in guardia alle volte da altre. Come osservava Étienne Gilson non esiste la filosofia cristiana, ma esistono dei cristiani che fanno filosofia. Proprio per questo il cristianesimo è molto aperto alla diversità di pensiero e persino santi canonizzati della Chiesa cattolica, basti pensare a Tommaso e Bonaventura, hanno potuto sostenere tesi diverse, e alle volte antagoniste, senza per questo essere meno fedeli alla loro fede e al magistero.

Contrariamente alle immagini standardizzate dell’autoritarismo cristiano, e cattolico in particolare, il cristianesimo richiede obbedienza di pensiero a pochissime affermazioni che riguardano elementi della fede e chiede che gli sviluppi, magari variegati, del pensiero li rispettino nella loro natura e, ovviamente, nelle loro implicazioni logiche. Le affermazioni poi hanno carattere storico-teologico e sono compatibili con molteplici tipi di pensiero. Insomma, in una parola, il cristianesimo non è e non ha un pensiero unico, che è invece tipico delle ideologie.

Al contrario, sicuro di essere una storia particolare con valori universali, esso è aperto ad affrontare problemi nuovi e a utilizzare categorie vecchie e nuove, valorizzando ogni esperienza di pensiero in qualche modo alla ricerca del vero. Le Romanae Disputationes sono uno splendido esempio di questo continuo tentativo e di questo atteggiamento sicuro, positivo e valorizzatore che contraddistingue un cristianesimo vissuto e lieto.

Impeto, passione, entusiasmo
Il secondo nocciolo della questione è il tema di quest’anno: il desiderio. È un tema complicato per i filosofi perché il desiderio non è un elemento facilmente classificabile o definibile. Ma persino la sua descrizione non è semplice né univoca prestandosi a essere di volta in volta avvertito come impeto, passione, pulsione, apertura, entusiasmo, slancio, sentimento, chiamata interiore, risposta al reale, primo elemento della razionalità, recondito motore dell’irrazionalità.

Difficile da descrivere e da definire, ancora più difficile da usare o padroneggiare, tanto più se “estremo” come riporta il titolo dell’edizione di quest’anno: “Un extrême désir”. A proposito di temi e problemi attuali, o sempre attuali, gli esseri umani, soprattutto quando sono giovani e quindi più aperti e pronti a una dimensione totalizzante che spesso perdono successivamente, avvertono il desiderio in tutte le sue dimensioni razionali e affettive come una forza che solo parzialmente viene da sé e che solo molto parzialmente si può controllare.

Non è un caso, dunque, che rispetto a tale forza le soluzioni si dividano spesso in due partiti: coloro che cercano in qualche modo di controllare, ammorbidire, ingabbiare, incanalare il desiderio e coloro che lo celebrano e vi si lasciano andare. William James, celebre psicologo e filosofo americano dell’inizio del ventesimo secolo, diceva che i filosofi si dividono in «tough minded» e «tender minded», nei “duri” e nei “teneri”. La sua classificazione ben si applicherebbe al caso del desiderio.

I “duri” cercano di razionalizzare il desiderio, di far sì che esso non dispieghi tutta la sua prorompente forza eversiva distruggendo ogni ordine costituito o precostituito. In positivo, che esso si incanali e sostenga, corroborandoli, i vari ordini reali e razionali. La filosofia ha avuto esempi diversissimi di tale atteggiamento, dalle ricette epicuree per non desiderare troppo e quindi non soffrire troppo alla sofisticata interpretazione di Spinoza per placare il desiderio inquadrandolo dentro gli elementi necessari dell’intero cosmo; dalla saggezza del razionalismo etico della Grecia classica fino al complesso razionalismo pragmatista di John Dewey. I “duri” cercano sempre di chiudere tutti i salmi in gloria, di far tornare i conti tra realtà, razionalità, esperienza (Esposito, Maddalena, Ponzio, Savini, Felicità e desiderio, Bari 2003).

I “teneri” invece tendono a fare l’opposto. La potenza eversiva del desiderio, sia essa sessuale, morale, psicologica, politica, metafisica è la vera natura dell’uomo, ingabbiato e ingannato dalla propria razionalità che in fondo è sempre ideologia e maschera. E, allora, viva ogni desiderio, liberandosi dalle pastoie delle oppressioni, di qualunque genere e tipo, fino a sovvertire ogni cosa e a distruggere ogni maschera e autorità, fosse pure quella di Dio, autorità suprema da cacciare finanche nei recessi della grammatica dove – secondo Nietzsche – la nostra credenza si nasconde.

Se si vuole davvero liberare il desiderio bisogna decostruire tutto, fino alla grammatica e alla logica, come diranno i maestri francesi degli anni ’60 del secolo scorso. Anche qui, nella posizione del “desiderio sempre buono”, gli studenti concorrenti al premio delle Romanae Disputationes avranno di che divertirsi tra Nietzsche e Deleuze, tra la storia affascinante e struggente della psicanalisi e quella inquietante della biopolitica di Foucault. Certo, questa seconda posizione di liberazione del desiderio è stata praticata soprattutto negli ultimi due secoli, ma non mancano le anticipazioni nella storia della filosofia, dai riti orfici che Platone ben conosceva fino all’infinito desiderio di infinito di Giordano Bruno, dalle estasi di Plotino fino al Mandeville difensore dei desideri e dei vizi privati.

«Vorrei che l’anima spaziasse»
Decideranno e studieranno e capiranno gli studenti con i loro professori. Il nocciolo della questione di questo splendido tema, per quanto ci riguarda, è che comunque lo si intenda il desiderio ha una natura totalizzante: non si arresta mai, non smette mai, non muore mai, fino all’ultimo secondo, fino all’ultimo respiro, come diceva Giacomo Leopardi nell’operetta morale di Federico Ruisch e delle sue mummie.

Il desiderio, per sua natura, tende ad affermare tutto o a negare tutto, a produrre i grandi santi, come il Francesco ricordato dal Papa nell’incontro con i giovani del 10 agosto, e i grandi negatori, il Capaneo dantesco e il Riccardo III shakespeariano o forse proprio il Nietzsche che impazzisce a Torino. Di questa natura totalizzante la tradizione cristiana, nelle sue varie forme di pensiero pluralista, ha sempre ricordato che il desiderio è la scintilla di accensione della libertà che è fatta per trovare e abbracciare un assoluto bene ed è per questo sempre insoddisfatta e inquieta finché non lo trova e, d’altro canto, che il desiderio e la stessa libertà umana portano i segni, le cicatrici, di una ferita antica che fanno sì che spesso il desiderio si attardi su beni non totali e, ancora più spesso, che esso tenda a tradire anche la propria natura totalizzante, accomodandosi annoiato nel borghesismo di mezzo.

Invece il desiderio, e quel desiderio cosciente che diventa domanda – diceva don Giussani, grande valorizzatore di questa dimensione umana – è l’atteggiamento più anti-borghese che esista. Per questo gli piacevano quei pensatori come Giacomo Leopardi o Vasilij Grossman che, da atei, lasciavano che questi desideri esprimessero razionalmente tutta la loro natura di essere segno di quel bene supremo per cui sono fatti. Il senso religioso, come estremo lembo della razionalità umana, legge infatti il desiderio di assoluto, di bene, di vero dell’uomo come segno del fatto che ciò che si desidera deve esistere, a meno di non sospettare contro ogni evidenza l’intera natura e l’intera esistenza di essere un crudele scherzo, così come lo stesso Leopardi proponeva nei momenti più delusi e dolenti della sua opera.

Il desiderio è insomma la tensione suprema e totalizzante che contraddistingue la razionalità umana e che anima fin la logica, come sosteneva acutamente Charles S. Peirce, uno dei più importanti logici contemporanei, affermando che la prima e più importante regola della logica è «il desiderio del vero».

È tale tensione che stabilisce la potenza e la drammaticità della vita umana, bene espressa dai versi di Clemente Rebora che descrivono il desiderio dell’uomo che di prova in prova, di realtà in realtà, sente il proprio desiderio in modo sempre più forte, sempre più totalizzante: «Ma come fermaglio dalla scotta/ più veemente vela al vento fugge/ vorrei così che l’anima spaziasse/dall’urto incatenato del cimento».

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