De Gasperi e la nostra fame di energia. Una lezione ancora attuale

Di Silvio Bosetti
27 Ottobre 2024
L’impegno del grande statista per dare energia a un paese distrutto dalla guerra e privo di materie prime. Che cosa suggerisce il suo esempio per le sfide che ci aspettano, dalla scommessa sulle fonti rinnovabili al nucleare
Il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi con il generale statunitense Dwight David Eisenhower a Roma nel 1951 (foto Ansa)
Il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi con il generale statunitense Dwight David Eisenhower a Roma nel 1951 (foto Ansa)

Per le celebrazioni del settantesimo della morte di Alcide De Gasperi, la Fondazione che ne porta il nome e custodisce la memoria ha programmato e organizzato numerose manifestazioni, con taglio differente, per approfondirne i molteplici aspetti politici, sociali e umani.

Nella straordinaria e ricchissima esperienza di questo singolare uomo politico della prima metà del Novecento, vi è il contributo, assolutamente essenziale, per la ricostruzione di un’Italia uscita completamente a pezzi dal conflitto della Seconda Guerra mondiale. In tale contesto la Fondazione De Gasperi, con il supporto di Enel, ha realizzato uno studio, con scoperte e risultati sorprendenti, relativo all’impegno dello statista anche per rilanciare il sistema energetico ed elettrico.

De Gasperi e l’industria elettrica

Un’accurata indagine storica e documentale ha consentito di appurare che Alcide De Gasperi fu uno straordinario quanto provvidenziale protagonista di primo piano anche per fare ripartire l’industria dell’energia elettrica e porre solide basi per lo sviluppo che avrebbe consentito, nei decenni successivi, di dare energia a un paese uscito distrutto dalla guerra e per di più privo di materie prime.

Nel 1940, poco prima dell’entrata in guerra, l’industria elettrica italiana produceva 21 miliardi di kWh. Dopo gli anni bui del conflitto, nel 1945, la capacità produttiva era quasi dimezzata, risultando inferiore ai 12 miliardi di kWh. Il problema dell’energia era pertanto una questione centrale nelle trattative per una pace che l’Italia andava a discutere da paese sconfitto.

Fin dal primo Consiglio dei ministri congiunto, tenutosi a Londra nel settembre del 1945, Alcide De Gasperi illustrò il punto di vista italiano sulle questioni energetiche, che sarebbero state oggetto del trattato di pace:

«Nell’Alto Adige, che si vuole cedere all’Austria, l’Italia ha costruito le grandi centrali idroelettriche che rappresentavano il 15 per cento di tutta la produzione nazionale. L’area piemontese del Moncenisio, data “in premio” alla Francia, era tra i più importanti punti nella produzione di elettricità dell’Italia».

Il clima era tutt’altro che conciliante. Il governo francese rispose che il suggerimento era arrivato «troppo tardi». Così replicò De Gasperi:

«Gli italiani capiscono, che essendo stati nemici, toccherà qualche punizione. Abbiamo accettato la perdita delle colonie, la flotta e le riparazioni. Ma il minimo cambiamento alla frontiera non è solo una punizione. È piuttosto un’umiliazione».

«Dobbiamo sfruttare le nostre forze idrauliche»

Nel gennaio 1947, in occasione dello storico viaggio negli Stati Uniti, il presidente De Gasperi tenne un epocale discorso a Cleveland, dove ancora una volta riprese l’argomento.

«Bisogna pensare all’industria. Anche qui lo sforzo primo è nostro. Dobbiamo sfruttare la ricchezza delle nostre forze idrauliche per la produzione dell’energia elettrica. […] Un programma deve prevedere impianti elettrici. Considerando che un qualunque sviluppo industriale è legato all’importazione di combustibili e di materie prime che non esistono».

L’anno successivo il governo degli Stati Uniti approvò il programma Erp (European Recovery Program), a noi noto come Piano Marshall (dal nome del segretario di Stato che promosse e sostenne il grande finanziamento). Il piano aveva il tema energetico tra le priorità: esso prevedeva che alla fine dei quattro anni si sarebbe ottenuto un massiccio incremento della produzione di energia, fino a raddoppiare rispetto a prima della guerra. Una quota consistente di questo aumento veniva attribuita agli impianti termoelettrici, ma la gran parte sarebbe derivata ancora da quelli idroelettrici.

De Gasperi fu osteggiato dai vicini di casa: anche questa volta “Parigi” intervenne infatti per contenere le richieste italiane, considerando eccessivo e troppo ambizioso il sostegno allo sviluppo del sistema energetico. Il presidente comprese la criticità e il valore strategico dell’energia e se ne fece carico personalmente. Seguiva costantemente i progetti e i lavori, presenziava alle inaugurazioni.

L’elettricità nelle case degli italiani

Non solo gli impianti di produzione: la politica industriale italiana spinse anche per diffondere e “normalizzare” le condizioni di consegna dell’elettricità: tensione, frequenza, fasi, eccetera. Così fu possibile uniformare le applicazioni domestiche e industriali (lampade, prese elettriche, macchinari, eccetera). La rete di trasporto e distribuzione arrivò ovunque e aumentò esponenzialmente la diffusione e la fruibilità della fornitura di energia elettrica nelle case degli italiani.

Seguirono, come noto, gli anni di intenso sviluppo. Nell’intervento alla Camera dei Comuni di Londra il 15 marzo 1951, De Gasperi comunicava con soddisfazione:

«La produzione di energia elettrica è in aumento. Lo scorso anno l’Italia ha nuovamente prodotto oltre 24 milioni di kilowattora, che rappresentano l’8 per cento in più della produzione del 1948 e il 58 per cento in più della produzione anteguerra».

Il 2 giugno 1952, il presidente non volle mancare all’avvio della centrale termoelettrica di Tavazzano, a sud di Milano. Nella stessa giornata De Gasperi proseguì il suo viaggio a Cortemaggiore, una visita di sostegno al metano italiano. Ed è in questo periodo che si formarono personalità imprenditoriali vicine a De Gasperi, come il commissario straordinario dell’Agip Enrico Mattei.

I dubbi sulla nazionalizzazione e il boom economico

In quegli anni il tema dell’energia prese una piega politica: fu soprattutto Ezio Vanoni a spingere per un intervento dello Stato, a fianco delle iniziative private. De Gasperi, nel riconoscere la serietà della crisi elettrica, mise tuttavia costantemente in dubbio la possibilità che la nazionalizzazione dell’industria elettrica potesse essere la soluzione migliore, visti gli elevati costi economico-finanziari di un intervento a carattere espropriativo.

Nel frattempo, nel 1951, con il Trattato di Parigi, nasceva – con un fortissimo e convinto sostegno italiano – la Ceca, composta da sei paesi: Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania Ovest. L’obiettivo era di creare un mercato comune per il carbone e l’acciaio tra i suoi membri, per promuovere la cooperazione economica e prevenire futuri conflitti. Nell’alveo di quel primo nucleo dell’integrazione europea, nel 1952 le politiche industriali nazionali consentirono di superare quota 30 miliardi di kWh (che corrisponde a circa un decimo dell’attuale domanda elettrica nazionale). Da quel momento cambiarono significativamente i ritmi di crescita, che proiettarono l’Italia nel “miracolo economico” della fine degli anni Cinquanta.

Nel 1954 De Gasperi divenne anche presidente dell’Assemblea parlamentare della Ceca: tuttavia, dopo solo qualche mese moriva prematuramente, circondato dall’affetto della sua famiglia e, in misura minore, da quello della politica.

Dagli anni Cinquanta ai giorni nostri

Le intuizioni e le azioni dell’appassionata politica industriale di Alcide De Gasperi posero le basi per il rilancio dell’Italia, sostenendo con tenacia anche il comparto energetico, coerente con una visione di radicamento, nonostante le difficoltà e le ricorrenti ostilità, dentro il contesto europeo e in ottica internazionale. Oggi l’Italia, che rimane estremamente povera di materie prime, consuma energia per quasi mille TWh, di cui l’elettricità (320 TWh) rappresenta circa un terzo. Rispetto a quella del 1950 la domanda, in 70 anni, è cresciuta di 10 volte. Come ci si è arrivati, come si intende proseguire?

La nascita dell’Enel

Ricordiamo che 60 anni fa la potenza installata era pari a 10.000 MW (nel 2024 siamo a 110.000 MW) per una capacità di produzione pari a poco meno di 50 miliardi di kWh ogni anno. Le utenze della Penisola erano circa 13 milioni. La rete di distribuzione non raggiungeva l’intera popolazione.

Inizialmente furono le imprese private a investire nel settore, ma in Parlamento si concretizzò l’idea che fosse opportuno procedere con la “nazionalizzazione dell’energia”, tema che dopo la scomparsa di De Gasperi assunse presto il significato di un terreno di battaglia politica. Nel 1962 il presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, se ne assunse l’impegno e il 6 dicembre il Parlamento approvò la legge di “Istituzione dell’Ente per l’energia elettrica” (Enel) con il conferimento ad esso degli impianti.

Il disastro del Vajont e la virata verso le fonti fossili

La traiettoria però fu subito investita da un drammatico avvenimento, quello della diga del Vajont (in provincia di Belluno), che segnò profondamente la storia dell’industria elettrica italiana. Nella tarda serata del 9 ottobre 1963 un’enorme frana si staccò dal monte Toc e scaricò nel lago un immenso volume di rocce e terre (270 milioni di metri cubi). La diga resse, ma 25 milioni di metri cubi di acqua scavalcarono l’opera e si riversarono a valle. Fu una tragedia, con oltre duemila dispersi.

L’Enel – sotto la pressione politica e dell’opinione pubblica – abbandonò così la progettazione di nuove dighe e cambiò strategia, investendo maggiormente negli impianti termoelettrici, funzionanti appunto con fonti fossili. Agli inizi degli anni Settanta fu possibile soddisfare una domanda che raggiungeva i 140 miliardi di kWh: la capacità produttiva era triplicata in soli dieci anni!

Dal petrolio al nucleare. E ritorno

La dipendenza dal petrolio si rivelò però una minaccia a partire dal 6 ottobre 1973, quando le truppe egiziane passarono i confini di Israele creando i presupposti per la guerra dello Yom Kippur che fu intensa e violentissima. L’economia internazionale ne risentì parecchio e l’Italia, più di tutti, fu investita da gravi turbolenze economiche e finanziarie: nel ’74 l’inflazione arrivò drammaticamente al 24,5 per cento.

Il Parlamento affrontò quindi nuovamente l’energia come argomento prioritario: nel 1975, l’Italia approvava il suo primo Piano energetico nazionale (Pen). La prima versione di quel Piano indicava, quale strada più idonea per sostituire il petrolio, la fonte nucleare, una tecnologia in cui l’ingegneria italiana eccelleva. Il Paese contava allora quattro centrali elettronucleari. Il Pen prevedeva la realizzazione di quattro nuovi siti. Ma la storia, anche questa volta, andò diversamente.

Il 28 marzo 1979 avvenne un incidente in una centrale nucleare negli Stati Uniti, a Three Miles Island (reso famoso dal film Sindrome cinese). Alcuni anni dopo, il 26 aprile 1986, si verificò il disastro di Chernobyl. L’effetto negativo sull’opinione pubblica verso il nucleare fu devastante. I referendum abrogativi dell’8 novembre 1987 si conclusero con una netta affermazione dei “sì”. L’Italia energetica dovette nuovamente cambiare rapidamente strategia.

L’onda delle liberalizzazioni e gli obiettivi green

Intanto l’approccio del mercato iniziava a cambiare radicalmente sull’onda delle grandi crisi e ristrutturazioni finanziarie del Regno Unito. La politica thatcheriana fece proprio il dogma della “regolazione” con la nota affermazione “occorre difendere il fortino fino all’arrivo della concorrenza”. L’Electricity Act, promulgato dal Parlamento britannico nel 1989, è ancor oggi alla base della struttura del settore elettrico. Esso formalizzò la separazione fra generazione elettrica (da svolgersi in regime di concorrenza) e trasmissione e distribuzione elettrica (regolata). L’attività di vendita fu liberalizzata affinché i consumatori fossero liberi di scegliere il proprio fornitore. La Comunità europea seguì quel metodo ed emanò le direttive sul mercato dell’elettricità (direttiva 1996/92) e su quello del gas (direttiva 1998/30). Si avviò quindi la grande onda delle privatizzazioni e liberalizzazioni.

Non passò un lustro che il governo comunitario europeo ripensò al suo modo di essere presente nelle politiche energetiche: con la sottoscrizione del Trattato di Lisbona (2007) l’Unione fu autorizzata ad adottare misure per «garantire il buon funzionamento del mercato dell’energia, la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, promuovere l’efficienza energetica, nonché a sostenere un piano di interconnessione delle reti energetiche». Il Consiglio europeo adottò gli ambiziosi obiettivi riguardo ai cambiamenti climatici. Con traguardo il 2020 si stabilirono i (cosiddetti) obiettivi 20-20-20: ridurre le emissioni di gas serra, aumentare la porzione di energie rinnovabili, migliorare l’efficienza energetica. Fu nel medesimo periodo che il Parlamento comunitario introdusse il principio, ormai consolidato, che le imprese che “inquinano” devono acquistare titoli e permessi per emettere la CO2 o ogni gas climalterante.

Le sfide dei prossimi anni

Oltre alle problematiche e drammatiche condizioni geopolitiche, nel nostro continente – per quanto attiene al tema energetico – occorre oggi aggiungere la sostenibilità delle drastiche politiche di riduzione delle emissioni, che tanto a cuore stanno appunto ai governanti europei: queste scelte, paradossalmente, impongono sempre più un maggiore ricorso all’energia elettrica. Gli obiettivi al 2050, ad esempio, richiedono di eliminare i tradizionali motori automobilistici nonché l’abbandono del metano quale fonte del riscaldamento delle abitazioni. Non potendo rinunciare al riscaldamento alla mobilità, occorre necessariamente spingere sui veicoli elettrici (mobilità) o con le pompe di calore (al posto delle caldaie a gas).

Il paradosso dell’elettricità in Italia

Ci si aspetta che l’energia elettrica arrivi a coprire più della metà del fabbisogno energetico (ad oggi ne soddisfa solamente il 22 per cento). Questa crescita di domanda, e pertanto di produzione, non potrà avvenire con le tradizionali enormi centrali termoelettriche bensì con le fonti rinnovabili, per loro natura intermittenti e diffuse sul territorio. Assisteremo quindi a scossoni contraddittori e alquanto rilevanti al sistema energetico tradizionale. Con non poche contraddizioni e abnormità economiche o sociali.

Ecco un’esemplificazione. Nel nostro paese continuiamo a realizzare nuovi impianti di produzione dell’elettricità (con le rinnovabili) sebbene si disponga di un parco produttivo già ben oltre due volte il bisogno. È un dato su cui riflettere! Negli altri paesi evoluti il rapporto tra potenza installata e picco del fabbisogno si aggira intorno a un fattore di 1,5 e comunque ovunque inferiore a 2. L’Italia è oltre a 2,1, essendo oltretutto l’unica nazione europea che importa dai paesi confinanti, ogni anno, almeno il 10 per cento dell’energia elettrica.

La rischiosa scommessa sulle rinnovabili

In questo quadro, quali sono le sfide più attuali cui Italia e Europa vanno incontro? È difficile immaginare una stabilità nelle aree del mondo che maggiormente dispongono di fonti primarie di energia, quali sono il Medio Oriente, il Nord Africa, il Venezuela, la Russia. A fronte di queste condizioni, gli Stati Uniti e il Canada – da una decina d’anni – si sono resi totalmente autonomi grazie a nuovi pozzi di estrazione, conseguenti alle autorizzazioni a utilizzare le tecniche di “frantumazione” delle rocce per la coltivazione dei giacimenti di cui sono ricchissimi (shale gas, sand oil).

La Commissione europea sul fronte della produzione, pur con le ben note vicende di drastica riduzione del flusso delle forniture energetiche dalla Russia (arrivato a costituire il 40 per cento del fabbisogno continentale), forse un poco miope e lenta nel cambiare strategie, persevera con determinazione nel piano di produrre energia pulita per divenire, al 2050, un continente a impatto climatico zero. Le fonti rinnovabili (eolico e fotovoltaico in primis) sono il perno del processo di decarbonizzazione.

Tuttavia, è bene ripeterlo, l’energia elettrica prodotta attraverso le fonti rinnovabili – per le contenute dimensioni degli impianti, il carattere di intermittenza e imprevedibilità – presuppone di avere altri impianti sempre pronti a sussidiare i momenti di assenza della produzione, affiancati da imponenti sistemi di accumulo. L’elettricità del futuro comporta quindi l’obbligo di investire nel potenziamento e nella ristrutturazione di una rete che divenga capace di accogliere la generazione diffusa sul territorio e soggetta a discontinuità nella produzione.

Questa scelta, al di là della sua redditività finanziaria e del suo impatto sul sistema. consentirà all’Europa, di raggiungere anche l’obiettivo di affrancarsi da approvvigionamenti internazionali?

I treni che non dobbiamo perdere

In tutto ciò occorre considerare che, dal 2021, l’Europa ha assegnato agli Stati membri, con l’Italia al primo posto per ammontare dei contributi, i finanziamenti cosiddetti Next Gen Eu (Pnrr). Per quanto concerne il tema qui trattato, la seconda mission del Pnrr è dedicata alla “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, finalizzata appunto all’obiettivo di diventare “carbon neutral” entro il 2050. Eppure – e questo va enfatizzato – non compare una grande coerenza o una regia congiunta con il Green Deal. Un poco come “tragicamente” accaduto per il Superbonus 100, anche il Pnrr non ha colto i nessi con la priorità di politica energetica e industriale. Qualcosa si sta facendo per riallineare. Speriamo in bene!

Un’annotazione finale non secondaria. La produzione di energia elettrica con fonti rinnovabili sposta di fatto la spesa: dall’acquisto dei combustibili fossili ai costi di realizzazione degli impianti. Quindi è essenziale che la politica industriale sia coesa e lungimirante nell’osservare, indirizzare e controllare le modalità con cui si sviluppa e si consolida un’industria capace di realizzare i pannelli fotovoltaici, le torri e le pale eoliche, i cavi e i tralicci delle reti, le batterie o i sistemi di accumulo. Lo sviluppo della transizione energetica e lo scenario internazionale possono essere – dal punto di vista socioeconomico – una minaccia, ma al contempo un’opportunità di crescita per i paesi europei. Saranno oltre 40 milioni – secondo le ricerche di Irena (Istituto di ricerca europeo) – i posti di lavoro che il settore delle energie rinnovabili produrrà da qui al 2050. Sarebbe un grave errore perdere questo treno, strategico per la coesione economica e sociale dell’Europa e dell’Italia.

Attualità del pensiero di De Gasperi

La visione e la cultura di De Gasperi, che resero possibile la ripresa industriale del paese, a 70 anni di distanza, rimangono un saldo esempio da non trascurare. L’Italia seppe infatti costruire una propria e autonoma capacità di produzione e di consumo energetico, calata nel disegno europeo della Comunità.

Oggi la sfida è in parte analoga a quella del periodo che ha visto De Gasperi come protagonista: si tratta di conciliare l’esigenza di rafforzamento della capacità e della continuità energetica, attraverso la diversificazione delle fonti di approvvigionamento. Per sostituire le fonti da idrocarburi servono le fonti rinnovabili, tra cui anche un potenziamento del settore idroelettrico, con il probabile ritorno al nucleare. Sarà imprescindibile investire per rinnovare e riconfigurare le infrastrutture di trasporto e di stoccaggio. È infine impensabile non trascurare i vincoli di interdipendenza energetica tra il Nord Europa e il Sud del Mediterraneo.

Riprendere in considerazione l’approccio pragmatico e collaborativo di Alcide De Gasperi consente di approfondire i binari storici delle profonde interdipendenze sedimentatesi durante la seconda metà del Novecento e aiuterebbe a comprendere la complessità delle numerose variabili in gioco (endogene ed esogene) per indirizzare e sostenere la politica industriale di un settore strategico per il futuro del paese e del nostro continente.

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