
Davanti ai colori del mercato d’autunno non si può pensare che sia tutto solo per caso
In questo mercato di primo autunno, sotto a un sole mite, metti anche, solo, i fiori delle zucchine. Li hanno composti, a un banco, con una tale grazia che sembrano gigli. Gigli color dell’oro, come di carta, come fatti a mano, sapientemente ripiegati da una fine mano di artigiano. Considera, semplicemente, la proporzione armoniosa degli umili fiori delle zucchine. La vedi, la guardi, e allora la vedi davvero. È perfetto, quel giglio zafferano, è germogliato perfetto dalla terra ignara. Considera poi questo ancora più banale cavolfiore trentino. Guarda la sua ardita struttura di piccole piramidi verdi chiare, simmetriche e uguali come le saprebbe riprodurre solo un programma di computer graphics. La terra invece è stata, e un seme da niente. Per non dire delle collane di peperoncino rosso fiamma. Dell’abbondanza dei tralci d’uva bionda. Il rosa delle ultime pesche incrocia, in questo mercato di ottobre, il bruno dei frutti autunnali. Il viola dei fichi, il marrone dei porcini e delle prime castagne. Il rame di questi manipoli di chiodini, popolo di elfi sbucati dal sottosuolo. Ti incantano i melograni, spaccati sul banco a mostrarsi interamente, color del sangue, come cuori spezzati. (Ma è il mercato che è particolarmente bello stamattina, o sei tu che vedi ciò che normalmente non vedi?). Trovi così sfacciata la bellezza della frutta d’autunno, che ti meraviglia che gli altri non se ne stupiscano, non si fermino a guardare i fiori delle zucchine come qualcosa di strano, e misterioso. Perché nel mercato sotto il sole, fra massaie affaccendate, una domanda aleggia, non detta: davvero questa perfezione, questa bellezza può essere un caso?
E forse nessuno dei passanti, in questo quartiere non chic di Milano, a interrogarlo, si direbbe consapevolmente ateo. Semplicemente siamo cresciuti dentro un humus che non riconosce più alcun disegno nel nostro destino. Non in quello del figlio che germoglia nel buio di una donna, e che troviamo normale eliminare. Non in quello del vecchio sofferente, il cui dolore è intollerabile, se è solo il disfarsi di una vecchia macchina assemblata dal caso. Ci siamo scordati del disegno – di quello del melograno vermiglio, e della gatta che allatta i cuccioli, vigile come una piccola fiera. Ci siamo scordati del disegno, e del nostro destino.
Azzardo di geni, prodotto di mutazioni vincenti, siamo orfani: nessuno ci ha pensato. E tantomeno chiamato. Nessuno ci ha scelto e nessuno ci aspetta. Viviamo nell’abbondanza, e cerchiamo come possiamo di distrarci. Ci manca, semplicemente, la tensione di chi sa dove andare. Ma come è stranamente evidente stamattina, sotto al sole appannato dell’autunno, la geometria splendente dell’oscuro cavolfiore trentino. Belle e perfette, le infiorescenze verdine, come un dipinto. (Quando vedi un dipinto, non pensi che si sia fatto da solo).
Il cardinale Schönborn dice che il rifiuto dell’intelligent design in Occidente è rifiuto di un creatore, che con la sua esistenza ci imporrebbe un ordine, un’etica a noi anteriore. Meglio orfani, dunque, che obbedienti. Ma anche dai banchi di un mercato rionale lo splendore dei frutti è una evidenza – per chi la voglia vedere.
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