
Dare un’alternativa alla cultura di Davos

Articolo tratto dal numero di Tempi di marzo 2019.
Quando nel 1999 Jörg Haider condusse con il 27 per cento dei consensi il suo partito liberal-nazionalista al governo di Vienna in coalizione con i popolari, già allora il mondo occidentale si arrovellò molto sul da farsi. Si paventava addirittura il ritorno del nazismo. Madeleine Albright, allora segretario di Stato Usa, commentò preoccupata rammentando che la democrazia non può essere solo questione di libere elezioni. Erano gli anni dell’euforia per il nuovo mondo globalizzato. Quella euforia per cui, finito il comunismo, il mondo avrebbe dovuto arrendersi a un unico modello di sviluppo, dove merci, servizi, persone, migranti, diritti individuali, informazioni e big data – tutti rigorosamente sullo stesso piano, senza distinzioni di valore – sarebbero stati liberi di circolare senza più impedimenti, né frontiere.
Nel 2007 Alan Greenspan, governatore della Fed americana, lo avrebbe esplicitato in modo chiaro, rispondendo così ad una domanda di un giornalista: «Siamo fortunati che, grazie alla globalizzazione, le decisioni politiche negli Stati Uniti sono state ampiamente sostituite dalle forze che governano il mercato globale. Se non per le questioni di sicurezza nazionale, non fa quasi differenza chi sarà il prossimo presidente. Il mondo è governato dalle forze del mercato».
Non che la globalizzazione sia un male e non presenti reali possibilità di crescita economica per vaste fasce della popolazione mondiale, specie nei paesi emergenti. Il problema sta nelle conclusioni a cui è giunta la ormai arcinota élite globale di banchieri, giornalisti, imprenditori e funzionari governativi che si ritrova annualmente al Forum di Davos, sulle Alpi svizzere, e che già Samuel Huntington nel suo Lo scontro delle civiltà aveva stigmatizzato sul finire del XX secolo. Parafrasando proprio quell’Eliot che Giancarlo Cesana ha riproposto per Tempi, è come se “l’uomo di Davos” avesse preteso di costruire un sistema planetario così perfetto da ritenere superflua quella cosa incomoda che è la libera volontà dei popoli, il loro legame con una determinata cultura e tradizione, la convinzione che il solo scambio di equivalenti non può rispondere a tutti quei bisogni profondamente umani e che non sono “solvibili”.
Gli ultimi dieci anni della peggiore crisi finanziaria di sempre hanno fatto il resto. La generale crisi di liquidità, con la conseguente stretta al credito, ha definitivamente messo in ginocchio quel ceto medio troppo benestante per ricevere aiuti pubblici e troppo piccolo per competere sul mercato globale. Ecco che sono emersi i cosiddetti populisti quale reazione scomposta a questo stato di cose. Per Mattia Ferraresi essi sono «la confusa risposta a una speranza delusa»: «Troppa prosperità, troppo benessere, troppa felicità sono state promesse perché la scoperta che non è possibile ottenere tutto subito non generasse un trauma» (Il secolo greve).
Ecco perché gli appelli a rassemblement europeisti di quelli col “senno”, delle persone “per bene” e dei moderati sono destinati a fallire. Questi non hanno più un terreno fertile su cui attecchire. È infatti proprio lo storico elettorato di riferimento dei partiti tradizionali che esprime un’esigenza di cambiamento radicale. Il problema, quindi, non sono i populisti. Il problema è di chi ha governato e non si è accorto di quel che stava accadendo sotto il suo naso. Il problema è di chi non è più in grado di entrare in sintonia col percepito e intercettare interessi reali.
L’aumento dell’Ires
Non di meno i populisti, pur sollevando questioni giuste, non sono in grado di offrire risposte adeguate. Rispondere ai limiti del mercato globale con rigurgiti neo-nazionalisti è il punto su cui occorre richiamare l’attenzione dei tanti che ne subiscono la fascinazione. L’idea di un ritorno ad uno Stato produttore diretto di beni e servizi, come ha rivendicato tra l’altro proprio a Davos Giuseppe Conte, fa a pugni con quella di un ente pubblico che cede quote di potere reale a organismi e comunità intermedie (a partire dalla famiglia, le imprese e i comuni), poiché non li reputa affatto concorrenti e ai quali anzi riconosce la precedenza. O ancora: la vicenda dell’aumento dell’Ires per le imprese del terzo settore, fatta in fretta e furia per far tornare i conti “sbilanciati” su una maggiore spesa improduttiva, svela una concezione marginale di tutto quel mondo che va oltre il binomio Stato-mercato. Se concepito quale erogatore di servizi a tutti gli effetti pubblici (scuola, sanità, assistenza, cura, ecc.), quel mondo invece compensa ampiamente i tagli alle relative risorse statali, sovvenendo ai bisogni dei cittadini e salvaguardando al tempo stesso la libertà d’iniziativa e la creatività sociale. Ciò su cui oggi siamo chiamati a riflettere quindi è se c’è ancora spazio per un’alternativa alla “cultura di Davos” che non sia una più spinta torsione statalista.
Foto Ansa
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