Dalla mafia alle ortiche. Lo scandalo di una malagestione che vale miliardi di euro
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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Che cosa fareste se vi dicessero che dal Trentino-Alto Adige alla Sicilia esistono beni per oltre 5 miliardi di euro, sotto forma di aziende e d’immobili confiscati alle varie mafie, e che a occuparsene sono in tutto 101 persone? Sono davvero tanti, 5 miliardi. Eppure è proprio così. L’Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc) è attiva dal febbraio 2010, è alle dipendenze del ministero dell’Interno e oggi ci lavorano 101 addetti suddivisi in cinque sedi, tra quella centrale di Reggio Calabria e altri quattro uffici a Roma, Napoli, Milano e Palermo. L’Anbsc è stata diretta finora da due prefetti che tutti hanno sempre indicato come uomini seri, onesti e capaci: fino al giugno 2014 da Giuseppe Caruso, poi da Umberto Postiglione.
Ma l’Agenzia è come un reparto lasciato solo dal resto dell’esercito, piantato in una trincea di prima linea battuta dall’artiglieria nemica. Il vero problema è la sconfortante lentezza delle procedure burocratiche, e l’inadeguatezza dei sistemi informatici: due elementi che dilatano i tempi. Così, e anche per colpa del credito bancario, che paradossalmente viene meno proprio dopo il sequestro da parte dell’autorità giudiziaria, le aziende sottratte alla criminalità organizzata e affidate all’Anbsc falliscono in più di nove casi su dieci, mentre gli immobili spesso vanno in rovina o non sono gestiti. Lo dimostra il triste caso dello storico Palazzo Teti Maffuccini a Santa Maria Capua Vetere (Caserta), l’elegante edificio dove nel 1860 Giuseppe Garibaldi firmò la consegna del Regno delle due Sicilie allo Stato Sabaudo. Nel 1996 il palazzo fu sequestrato al clan dei Casalesi, e nel 2010 l’Unione Europea aveva stanziato 3 milioni di euro per risistemarlo, magari per farne un museo: purtroppo i soldi dovevano essere spesi entro il 2015, ma gli intoppi burocratici (e forse gli interessi contrastanti della camorra) li hanno fatti svanire nel nulla. Oggi l’edificio sta andando in rovina. Ma altrettanto accade a capannoni industriali, e a terreni, case, negozi, imprese…
15 anni per una comunicazione
La lentezza, sull’Anbsc, opera esattamente come un cancro in un organismo sano. Su un campione di 1.017 procedure giudiziarie, lo scorso giugno la Corte dei conti aveva calcolato che i tempi medi tra la confisca di un bene e l’invio della comunicazione dal tribunale all’Agenzia nazionale arrivano a 470 giorni, quasi un anno e mezzo. Eppure non si tratta di una pratica complicata: basterebbe il semplice passaggio dell’informazione, con i relativi atti formali. Esistono anche punte decisamente anomale di 5.400 giorni (quasi 15 anni!) per il tribunale di Reggio Calabria, dove la media delle comunicazioni arriva a 866 giorni; in quello di Napoli la media è più alta, 1.414 giorni, con punte di 4.123. A Palermo, paradossalmente, la gestione delle informazioni è più rapida: 270 giorni in media, con un massimo di 1.158.
L’Anbsc cerca comunque di darsi da fare, disperatamente. Lo scorso 20 settembre il prefetto Postiglione, interrogato dalla Commissione parlamentare antimafia, ha dichiarato che «per la prima volta nella sua storia, dal giugno 2014 al luglio 2016 l’Agenzia è riuscita ad assegnare 5.300 beni, più del doppio dei 2.500 beni che nel frattempo ha preso in carico». Oggi il prefetto stima che al 31 dicembre dell’anno scorso i beni siano poi aumentati a 6 mila, e che dal gennaio 2017 se ne siano aggiunti altri 400. «Da qui alla fine di marzo – promette Postiglione – ne collocheremo altri 1.500-1.600. Rispetto al passato, dalla fine del 2014, abbiamo praticamente decuplicato il ritmo».
La «legalità percepibile»
Da oltre un anno l’Agenzia si è concentrata sulla consegna di alloggi ai grandi Comuni meridionali, che li utilizzano per fare fronte all’emergenza abitativa. «È l’operazione legalità percepibile», spiega Postiglione. Sicuramente concreta, questa attività ha attratto meno attenzione di operazioni mediaticamente più impressionanti, come ad esempio il nuovo museo di arte contemporanea inaugurato a metà del 2016 a Reggio Calabria con 160 quadri di autori significativi del Novecento (e non solo): da Salvador Dalí, a Giorgio De Chirico, fino ad Amedeo Modigliani. Quelle opere erano state sottratte a Gioacchino Campolo, l’ex re dei videogiochi condannato come riciclatore del denaro delle ’ndrine. Ma anche in questo caso virtuoso l’operazione è stata troppo lenta: i quadri erano stati confiscati nel maggio 2012, eppure soltanto nel novembre 2015 sono stati consegnati all’Agenzia. Che poi è riuscita a coordinare l’operazione museo in nemmeno sei mesi.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Il problema è proprio questo, e cioè che gli strumenti a disposizione dell’Anbsc sono insufficienti. A partire da quelli informatici. Il sistema computerizzato dell’Agenzia si chiama Re.Gio, e da tempo è oggetto di polemiche perché non funziona bene. Dentro al Re.Gio dovrebbero finire tempestivamente tutti i dati sui beni confiscati provenienti dal Sippi, il Sistema informativo delle prefetture e delle procure dell’Italia meridionale, che è gestito dal ministero della Giustizia. La velocità e la completezza delle informazioni è ovviamente fondamentale, per il successo della gestione dei beni sottratti alla criminalità. Il problema è sempre quello: se l’Agenzia non sa in tempo reale di quali beni può disporre, non può amministrare, né cedere alcunché.
Accuse di maneggi e corruttele
«Purtroppo – ha sommessamente protestato lo scorso settembre Postiglione nell’audizione alla Commissione antimafia – il Sippi è un po’ antiquato». Ma l’arretratezza non è tutto: «Alcuni mesi fa – ha rivelato il prefetto – il sistema è saltato: così in Sicilia sono stati persi circa l’80 per cento dei dati, e in altre parti d’Italia più o meno è successa la stessa cosa».
In realtà, a parte i guasti tecnici, il groviglio informatico ministeriale sui beni confiscati è quasi inestricabile. Perché accanto al Sippi c’è la Banca dati centrale dei beni sequestrati e confiscati, anch’essa attiva presso il ministero della Giustizia, che contiene informazioni su consistenza, destinazione e utilizzazione dei beni. La Corte dei conti aveva però rilevato, alla metà del 2016, che né il Sippi né la Banca dati sono efficacemente collegati al Re.Gio. C’è poi un terzo strumento, il Sistema informatico telematico delle misure di prevenzione, il Sit-Mp. Ma sempre la Corte dei conti aveva scoperto che anche questo sistema ha seri problemi: poiché il Sit-Mp viene finanziato con «risorse europee a destinazione vincolata», scrivevano i giudici contabili, può legittimamente «essere operativo inizialmente solo nei tribunali delle regioni dell’Obiettivo convergenza dell’Unione Europea, e cioè Sicilia, Sardegna, Campania, Puglia». Stop. Quindi, apparentemente, il Sit-Mp al momento non può operare in Calabria, regione peraltro significativa, né «in tribunali di primaria importanza quali, ad esempio, quelli di Roma, Milano e Torino».
L’informatica è poi un problema del tutto residuale, al confronto del sospetto di diffusi maneggi che da oltre un anno grava nel campo della gestione giudiziaria dei beni sequestrati. A suscitare i sospetti è stata la clamorosa inchiesta che la procura di Caltanissetta ha avviato nel 2014 sulla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo (vedere in queste pagine la cronologia sul caso). Quando nel giugno 2015 l’inchiesta è poi esplosa mediaticamente, coinvolgendo in un’accusa di corruzione e concussione addirittura Silvana Saguto, e cioè il potente magistrato siciliano che da una decina d’anni era a capo di quel delicatissimo ufficio, è emerso un intero mondo di conflitti d’interesse e di presunte corruttele. Saguto, costretta alle dimissioni e sospesa anche dal Consiglio superiore della magistratura, è stata accusata di avere affidato ad amministratori giudiziari sottomessi o collusi una lunga serie di beni sequestrati alla criminalità organizzata. Potendo lucrare illegalmente su patrimoni sequestrati per centinaia di milioni di euro, gli inquirenti sostengono che gli amministratori prescelti garantissero in cambio a Saguto importanti favori.
Ora l’inchiesta è terminata, e per una ventina d’indagati sta per arrivare la richiesta di rinvio a giudizio. Fa impressione, a tre anni di distanza, rileggere le denunce lanciate pubblicamente nel 2014 dal prefetto Caruso, allora al vertice dell’Agenzia. Caruso aveva contestato la «gestione a uso privato dei beni sottratti alla mafia» da parte di alcuni amministratori scelti dai tribunali. Il coro contro le sue affermazioni, allora, era stato unanime: il presidente dell’Antimafia, Rosy Bindi, aveva rudemente invitato Caruso a evitare di «delegittimare la magistratura». Perfino l’Associazione nazionale magistrati lo aveva criticato. Dall’ottobre 2015 la sezione misure di prevenzione di Palermo è governata da Giacomo Montalbano, un onesto magistrato sessantenne con una lunga carriera nell’antimafia. In meno di un anno la sezione è riuscita a risparmiare 5 milioni di euro soltanto nelle parcelle liquidate ai commissari giudiziari. Montalbano spiega che sono state adottate nuove regole: per esempio, «è stata accresciuta la rotazione degli incarichi e ogni amministratore può ottenerne al massimo tre».
Basterà per restituire fiducia al sistema? Ma, soprattutto, il ministero cercherà mai di risolvere i problemi informatici dell’Agenzia beni confiscati?
Foto Ansa
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