D’Alema, lo sconfitto imbattibile. Deve ancora nascere il compagno che riuscirà a rottamarlo

Di Laura Borselli
05 Maggio 2013
Iperpolitico e irresistibilmente antipatico. Odiato e stimato a destra come a sinistra. Ritratto del lider Maximo ex comunista che a ogni conclave entra papa ed esce cardinale

Sabato scorso sono andate in fumo le possibilità di una riedizione delle passeggiate sottobraccio ai leader di Hezbollah e del “bye bye Condi” sussurrato al termine di una telefonata con l’allora segretario di Stato americano Condoleezza Rice. Dato per papabile come ministro degli Esteri nel governo delle larghe intese guidato da Enrico Letta, Massimo D’Alema è rimasto a bocca asciutta. Esattamente come pochi giorni prima quando in ballo c’era la successione a Napolitano e il suo nome era in tutti i pronostici del toto Quirinale. Ormai quello del “migliorino” è il nome bomba, la carta per far saltare il banco e aprire una strada imprevista e imprevedibile. Perché non c’è nessun nome come quello di Massimo D’Alema che riesce a polarizzare profondamente e trasversalmente tanto la destra quanto la sinistra. Sono talmente tanti a destra quelli che lo apprezzano che a sinistra si fanno sospettosi. Viceversa, è talmente incondizionato il rispetto che gli porta una parte della sinistra che a destra improvvisamente mettono da parte l’attrazione per l’irresistibile antipatico e si ricordano che è pur sempre un comunista.

Comunista era la sua famiglia. Il padre Giuseppe fu una figura di spicco della Resistenza nel Ravennate e poi nel Ferrarese e poi deputato rosso per cinque legislature. La madre, Fabiola, era soprannominata anche in casa “il generale”. Inutile dire che l’agiografia vuole il nostro somigliante tutto alla mamma. All’età di dieci anni, Massimo chiese di essere ricevuto da Palmiro Togliatti in quanto membro dell’Associazione pionieri italiani. L’aneddoto narra che il piccoletto chiese al burbero dirigente una stanza dove riunirsi coi compagni. Pare che al termine del colloquio il Migliore rimase tanto stupito dalla determinazione e dalla disciplina del ragazzo da esclamare: «Ma questo non è un bambino, è un nano!». La svolta della sua vita politica arriva nel 1975, quando a Pisa incontra Enrico Berlinguer. In quell’anno viene nominato segretario della Fgci e lo resterà fino al 1980. La stagione di crescita e sofferenza della Fgci di quegli anni segna molto il giovane D’Alema e già allora, come nota il politologo Andrea Romano in Compagni di scuola (Mondadori), emerge quella che diverrà una delle caratteristiche fondanti del personaggio, la «rappresentazione della politica come tattica della realtà e navigazione lungo tutte le piccole e grandi insenature della costa».

Entra per la prima volta in Parlamento nel 1987. «Se io vinco le primarie non finirà il centrosinistra, certamente finirà la carriera parlamentare di D’Alema», diceva pochi mesi fa in giro per l’Italia Matteo Renzi. Di certo, D’Alema era il bersaglio di critiche e ironie molto prima del furore della rottamazione. D’Alema, ha scritto Paolo Mieli, «sarà perseguitato a vita… per le scarpe, il risotto, il labrador e la Bicamerale». Per divertirsi bisogna partire dalla storia delle scarpe, gustosamente ricostruita da Giampaolo Pansa nel suo Tipi Sinistri (Rizzoli) e svelata nel giugno 2000 da una rubrica dell’Espresso. Invitato a cena da Alfredo Reichlin, dirigente storico del Pci, Massimo si trova tra i piedi il bassotto del padrone di casa. D’Alema non gradisce le attenzioni della bestiola («Questo non è un cane. Un vero cane è il mio labrador Lulù») e ordina a Reichlin: «Levamelo dai piedi! Mi rovina le scarpe che costano un milione e mezzo». Di fronte agli occhi sgranati dei presenti lui non fa una piega: «Certo, me le ha fabbricate su misura un calzolaio calabrese che mi ha segnalato il compagno Marco Minniti».

Per la Bicamerale, invece, bisogna fare un passo indietro. Archiviato Occhetto con l’esordio vincente in politica di Silvio Berlusconi nel 1994, D’Alema diventa segretario del Pds, anche se lo stesso Occhetto si era speso per Veltroni, che godeva di un più ampio consenso popolare. Di lui Gian Antonio Stella ha scritto che per anni si era vantato di due cose su tutte: «Essere arrivato “terzo su quarantadue alla Baltic Cup” e di avere portato alla vittoria “una sinistra che si emozionava, organizzava feste, distribuiva volantini, cucinava tortellini ma perdeva”». Il fascino dell’uomo, “diciamo” (il suo intercalare più famoso), viene da frasi come queste che tradiscono uno snobismo tagliente, una perfidia tanto più efficace perché mescolata all’indifferenza. «Il mio amico Massimo – ha detto lo scrittore Montalban a una festa dell’Unità a Bologna – è il “signor segretario” perfino quando mangia fette di finocchiona: lo fa come se stesse pensando all’origine e alle finalità della finocchiona nel mondo». Si narra che nel 1994 alla Festa dell’Unità nazionale i Pink Floyd attirarono 60 mila persone, molte meno di quelle che si misero in fila per il comizio finale del compagno Massimo.

La bicamerale arriva nel 1997. Presieduta dallo stesso D’Alema, la Commissione ha il compito di riformare la seconda parte della Costituzione, ma dopo meno di due anni il tavolo salta. A tirarsi indietro è Berlusconi, ma lo stesso D’Alema sconterà il discredito della sconfitta. Più ancora porterà il peso di aver concesso un’immeritata apertura di credito al nemico. Una certa sinistra non glielo perdonerà mai (Gherardo Colombo parlò di «bicamerale figlia del ricatto»). Una certa destra comincerà a guardarlo con occhi diversi. Nel 1998 il nostro sale a Palazzo Chigi, fino ad oggi unico post comunista a farlo. Peccato che ci vada senza voti, ma con l’incarico dal capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro dopo la caduta del primo Prodi che spezza i sogni del centrosinistra italiano. «Per noi fessi – scriveva Edmondo Berselli in Sinistrati (Mondadori) –, per noi ulivisti è più o meno una tragedia. Perché noi non abbiamo niente da spartire con D’Alema, che è un comunista realista, il quale probabilmente non crede più in niente tranne in ciò che al momento pensa lui». Non per niente la caduta di Prodi, pur se avvenuta per mano di Fausto Bertinotti, è uno dei fatti che viene imputato al famigerato “complottone” dei dalemiani. Anche pochi giorni fa l’affossamento di Prodi alla presidenza della Repubblica è stato ricondotto al lider Maximo e ai suoi fedelissimi. Lui ha minacciato querele contro chiunque osi affermare una cosa del genere.

A Palazzo Chigi D’Alema si trova a gestire il bombardamento del Kosovo da parte della Nato e non fa una piega. In quegli anni con lui ci sono due spin doctor, Fabrizio Rondolino e Claudio Velardi, considerati le menti dell’operazione simpatia del premier che culmina nel risotto cucinato davanti alle telecamere di Vespa. La comunicazione politica italiana è rivoluzionata e l’indignazione radical chic è servita, ché dal risotto di D’Alema al plastico di Cogne il passo è breve. In quegli anni avventurosi Rondolino e Velardi si dedicano anche a pianificare il futuro del leader. In un memorandum riservato, pubblicato per la prima volta nel 1999 in appendice al saggio di Alessandra Sardoni Il fantasma del leader (Marsilio), i due spiegano come lavorano alla costruzione del personaggio per il ruolo che più gli si addice: quello di capo dello Stato. Infatti, «i ritmi di lavoro di Palazzo Chigi sono massacranti. D’Alema è un buon lavoratore, ma il suo tempo è organizzato in modo particolare: a fasi “intensive” si affiancano fasi di inattività pressoché totale». Le cose vanno diversamente. D’Alema si dimette nel 2000 in seguito alla sconfitta della sinistra alle regionali, da lui stesso trasformate in un test politico, e il sogno del Quirinale svanirà una prima volta con l’elezione di Giorgio Napolitano nel 2006 e una seconda volta poche settimane fa.

«La mia persona reale – ha detto in un’intervista – è del tutto inoffensiva. Anzi, con una forte tendenza all’apatia e alla contemplazione». Colpevoli di disegnarlo diverso da quel che è sono i giornalisti. Giornalista lui stesso (è stato direttore dell’Unità) ha fatto sua una delle definizioni più sprezzanti e azzeccate della categoria coniata da Togliatti: iene dattilografe. Qualche anno fa Giampaolo Pansa ha significativamente inaugurato il suo passaggio dall’Espresso a Libero con un campionario di espressioni di disprezzo per i giornalisti collezionate dal nostro negli anni. La sintesi è che (1993): «In questo Paese non sarà mai possibile fare qualcosa finché ci sarà di mezzo la stampa. La prima cosa da fare quando nascerà la Seconda Repubblica sarà una bella epurazione dei giornalisti in stile polpottiano». Vicine alle sensibilità del centrodestra anche alcune dure prese di posizione contro la magistratura e il rapporto perverso con la stampa, che gli costarono, sempre dal puntuto Pansa sull’Espresso, il soprannome di Dalemoni.

Iperpolitico, antipatico, cinico e ora costretto al ruolo di quello che entra papa in conclave per uscire cardinale. Oggi il profilo di Massimo D’Alema sembra fuori dal tempo, un’intelligenza destinata all’oblio in un coté che insegue il nuovo flirtando con l’arma della rottamazione. Eppure la strategia di destinarlo ai giardinetti sembra prematura. E probabilmente anche miope.

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1 commento

  1. beppe

    caro fabio mi hai tolto le parole di bocca. ogni volta che sento elogiare dalema, mi faccio la stessa tua domanda. l’essere più intelligente e più inutile della politica italiana. escluso veltroni

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