Cuffaro alle nozze della sorella di Messina Denaro? “Il Fatto” non sussisteva
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Se le sorti del processo alla mitologica “Trattativa” tra lo Stato e la mafia dovessero reggersi sulla credibilità dei testimoni dell’accusa, le speranze di portare a casa anche il minimo risultato si riducono parecchio. Sia per il neo cittadino onorario di Roma, il pm numero 2 dell’inchiesta, Di Matteo Nino, sia per chi continua a pensare che si tratti di una cosa seria. Tra un Ciancimino Massimo, già «icona dell’antimafia» a detta dell’ideologo del processo (avvocato Ingroia Antonino, ex pm numero 1), diviso tra candelotti di dinamite in giardino, abbracci scenografici con il Borsellino minore (Salvatore, fratello del magistrato ucciso), calunnie e patacche varie ad usum Santori-Ruotoli-Travagli, e un Masi Saverio, di professione maresciallo carabiniere autista (del Di Matteo di cui sopra), azzoppato da un processo per calunnia e storielle di falsi per multe stradali manipolate, ecco che arrivano rogne per un altro autorevole testimone dell’accusa, uno particolarmente attivo sul fronte dell’accreditamento della tesi accusatoria, non foss’altro che per militanza professionale tipica. Parliamo di Amurri Sandra, la giornalista del Fatto quotidiano che “intercettò” una conversazione al bar tra ex big della politica Dc (il celebre caso Mannino-Gargani) poi prontamente assorbita dal miliardesimo faldone processuale sulla Trattativa.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]L’affidabilità del teste ha ricevuto un colpo dal tribunale di Palermo non più tardi di 5 mesi fa, quando il giudice monocratico, Riccardo Trombetta, ha fatto chiarezza su una delle tante “propalazioni” – in gergo giuridico/sbirresco si dice così – che seppellirono l’allora governatore della Sicilia, Totò Cuffaro, già inguaiato di suo con la giustizia al punto che 7 anni in carcere, alla fine, fu possibile infliggerglieli.
Ricordate il famoso matrimonio della sorella di Matteo Messina Denaro cui parteciparono “700 invitati vestiti in doppiopetto rigato a bere fiumi di champagne Cristall” tra i quali Calogero Mannino, Marcello Dell’Utri e, appunto, Salvatore Cuffaro? Ne parlò mezzo mondo, dopo che la teste della Trattativa vergò un’acrobatica intervista a tal Maria Antonietta Aula, ex moglie del senatore Antonio D’Alì. Bene, l’intervista uscì sul Fatto nel novembre 2009, rilanciata poi dal relativo sito internet e da un numero indefinito e indefinibile di testate, social network e discariche varie.
La sentenza è arrivata dopo 7 anni, precisamente il 3 marzo 2017 (n.1164/2017, Rg n.1373/2010, Repert. n.2446/2017) e condanna sia la giornalista-teste che l’editoriale Il Fatto a rifondere a “Totò vasa vasa” 10 mila euro (su una richiesta di 50 mila) più altri 8.500 di spese legali, quasi 20 mila euro complessivi. Per la verità la causa, patrocinata dagli avvocati Salvatore Ferrara e Giovanni Gruttad’Auria, si presentava più complessa, con pretese risarcitorie tra convenuti (la Aula contro Amurri e Padellaro, al tempo direttore del giornale oggi guidato da Marco “Dettaglio”, copyright Giuliano Ferrara) e spese legali suddivise secondo calcoli tecnici che, a illustrarli qui, ci porterebbero fuori notizia.
Il giudice, lette tutte le carte, comprese quelle della difesa degli avvocati Flammini Minuto e Chiocci, ha stabilito che la notizia fosse diffamatoria in quanto non provata. Peraltro anche inverosimile se si considera che al tempo del matrimonio della figlia di Lorenza Messina Denaro, sorella maggiore del superlatitante, Cuffaro aveva 18 anni e, sebbene enfant prodige della Dc, difficilmente la mafia e i boss si sarebbero interessati alla sua carriera politica, altro punto centrale dell’articolo della teste Amurri.
Virgolettando le parole dell’intervistata Aula, la giornalista del Fatto scriveva: «Ricordo molto bene il matrimonio… gli invitati… lo champagne… Totò Cuffaro, etc.». Precisa quindi che «la signora Aula snocciola una litania di fatti, tutti documentati… e Guttadauro si interessava alle sorti politiche di Cuffaro». Fatti documentati? A giudicare dalla sentenza è vero il contrario.
Per carità, un incidente capita a qualunque giornalista, chi è senza peccato eccetera. Meno comprensibile è che, per avvalorare la propria tesi, si esibiscano prove che non sono prove, anzi. Infatti i legali della testimone allegano un cd-rom con la registrazione di circa tre ore e mezza di conversazione tra la Amurri e la signora Aula, per dimostrare che fu la fonte a dirle quelle cose, non la creatività della convenuta. Peccato che il giudice, forse contrariamente a quanto ci si aspettasse, se le sorbisce tutte, le tre ore e mezza di chiacchierata, ma della partecipazione di Cuffaro al matrimonio non trova traccia. Quindi la notizia era falsa, inventata dal teste della Trattativa. Con relative conseguenze.
Stupisce, ancora, l’insospettato garantismo della posizione della difesa, speculare e opposto al racconto manettaro di quelle due pagine (8 e 9) pubblicate dal Fatto nel 2009: «Scrivere della partecipazione ad un matrimonio di un mafioso o dell’interessamento dei boss alla carriera politica di qualcuno, non equivale a rendere automaticamente mafiosi gli invitati… né si può dire che l’appoggio politico della mafia ci sia effettivamente stato». Verissimo, però di dubbia credibilità se si inquadrano contenuto, titolo, occhiello e catenaccio dell’articolo, orientati verso l’opposto.
Il giudice, infine, esclude che l’articolo possa aver influito sulle scelte di altri magistrati che in quei giorni stavano decidendo – manco a farlo apposta – proprio sulle sorti penali di Cuffaro, che ne uscirà ammanettato: ma qui ognuno è libero di pensare ciò che vuole. Almeno finora.
Foto Ansa
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